Noi giovani che il 26 luglio del 1953 studiavamo nel collegio dei Gesuiti di Belén, all’Avana, quando un vecchio alunno del medesimo collegio, Fidel Castro Ruz, guidava a Santiago di Cuba l’assalto alla caserma “Moncada”, mai avremmo immaginato che l’azione del nostro ex condiscepolo avrebbe innescato una rivoluzione destinata, sei anni dopo, a cambiare profondamente la società cubana. E per più di mezzo secolo.
Però, l’annuncio dato il 17 dicembre simultaneamente a Washington e all’Avana dai due presidenti Raúl Castro e Barak Obama del ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi – rotte unilateralmente nel 1961 dall’allora presidente statunitense Johnn F. Kennedy- ci ha visti coscienti che si apriva un nuovo capitolo della storia di Cuba. Tantopiù che l’annuncio coincideva con il giorno dedicato a San Lázaro- Babalù-Ayé, santo miracoloso della religione afro-cubana al quale la gran parte dei miei concittadini si rivolgono nei momenti critici. Una nuova era, dunque, che riempie di speranza la gran parte della popolazione, ma che sappiamo foriera di molti interrogativi.

Il Vaticano e lo stesso papa Francesco hanno avuto un ruolo di primo piano, favorendo e poi partecipando come mediatori alle lunghe -18 mesi – trattative tra Usa e Cuba che hanno portato alla fine dell’ultimo muro della guerra fredda. Francesco, primo pontefice latinoamericano aveva il carisma internazionale per rivolgersi direttamente ai due capi di Stato e la Chiesa cattolica cubana possedeva una credibilità come attore sociale nell’isola sufficiente a dare garanzie al capo della Casa bianca. E dopo l’annuncio, la Chiesa diventa un coprotagonista della nuova era che si apre nell’isola.
Questo risultato è il frutto di un lungo e travagliato processo di avvicinamento tra governo e Chiesa seguito al clima di duro confronto istauratosi subito dopo il trionfo della rivoluzione nel 1959. In quell’anno il clero cattolico era composto per il 75% da preti spagnoli, influenzati dai vincitori della guerra civile nella madrepatria e marcati dal cosiddetto «nazional-cattolicesimo» franchista. E dunque in rotta di collisione con l’esecutivo guidato da Fidel, che aveva imboccato una via sempre più radicale fino a dichiarare, due anni dopo, che «Cuba era socialista».
Ma, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, sotto la guida del papa Giovanni XXII – lo stesso che era intervenuto presso il presidente Kennedy nell’ottobre del 1962 per impedire un attacco con armi nucleari contro Cuba, che ospitava missili e ogive atomiche dell’Urss – si cominciarono a vedere segni di disgelo. L’inviato del «papa buono» a Cuba, come mediatore della crisi dei missili, monsignor Cesare Zacchi, nel 1967 fu consacrato vescovo e nominato Nunzio apostolico all’Avana.

Per l’occasione lo stesso Fidel, accompagnato dal ministro degli Esteri, Raúl Roa, si recò nella sede della Nunziatura ed ebbe una lunga conversazione con monsignor Zacchi. Il clima di confronto cominciò a cambiare. Tra il lider maximo e il vertice cattolico si stabilì una canale di comunicazione. E nel 1969 l’episcopato cubano emise una prima dichiarazione pubblica di critica all’embargo attuato dagli Usa contro Cuba. A partire da quell’anno, e in più occasioni, la Conferenza dei vescovi cattolici di Cuba – come pure il vertice delle principali Chiese protestanti – chiesero la fine dell’embargo e l’inizio di trattative volte a migliorare le relazioni tra gli Usa e Cuba, come pure tra i cubani dell’isola e quelli che erano emigrati in Florida.

Sia Raúl Castro, sia il presidente Obama hanno calorosamente ringraziato l’opera di mediazione del Vaticano e di papa Francesco. Da parte loro, i vescovi cattolici hanno espresso, in una dichiarazione pubblica letta domenica 21 dicembre in tutte le chiese di Cuba, il loro pieno appoggio alle misure annunciate dai due presidenti.
I preti che in questa occasione hanno officiato la messa, hanno dedicato la loro omelia ad analizzare la situazione , insistendo sulla necessità di proseguire nella «riconciliazione e nel perdono» e nel moltiplicare gli sforzi per superare ogni passata inimicizia e confronto.

Attualmente in Cuba, molti miei concittadini, indipendentemente dalle loro opinioni politiche e credo religioso, si augurano una prossima visita nell’isola di papa Francesco per poter testimoniare direttamente al primo pontefice latinoamericano il loro ringraziamento per la sua opera di mediazione volta a migliorare le relazioni tra Washington e l’Avana. Nella speranza che il papa e la Chiesa cattolica possano favorire un nuovo clima di intesa nazionale foriero di sviluppo e di una nuova era per Cuba.
* analista, professore di Storia delle religioni