L’occupazione di Gezi Park è iniziata, formalmente, il 28 maggio 2013, ma sono milioni i piccoli passi che hanno condotto qualche decina di attivisti ambientalisti a organizzare la protesta che ha infiammato le piazze di tutta la Turchia.

Sono i passi della Great Anatolian March, partita il 2 aprile 2011 da sette diverse parti della Turchia. Una marcia diretta a Ankara con l’intenzione di portare al governo un messaggio chiaro: siamo qui e occuperemo la piazza di fronte al Parlamento finché le nostre richieste non saranno ascoltate. Richieste che le decine di attivisti portavano di villaggio in villaggio, per raccontare alla Turchia profonda i faraonici progetti del governo per la costruzione di dighe e centrali idroelettriche che avrebbero cambiato per sempre il volto dell’Anatolia e la vita di milioni di persone per la sete di profitto di pochi.

È Nogay che mi parla della marcia un pomeriggio a Gezi, in mezzo alle tende del primo nucleo di occupazione del parco. Lui quella marcia l’ha organizzata e vi ha partecipato. «Siamo un gruppo di persone riunite da un’idea molto semplice: vogliamo che sia abbandonato questo modello di sviluppo che nuoce alla natura trattandola come fosse merce, che costringe le persone ad abbandonare il luogo in cui sono nate e cresciute perché diventa impossibile nutrirsi, perché gli stili di vita tradizionali sono distrutti dall’avanzata di un progresso che in realtà significa solo profitto per alcuni e miseria per quasi tutti».

Nel 2011 hanno camminato per quasi due mesi lungo le strade dell’Anatolia e quando il 21 maggio sono arrivati alle porte di Ankara e la polizia ha impedito loro l’ingresso in città si sono accampati finché il divieto non è stato tolto. «Sono anni che combattiamo legalmente progetti di dighe, centrali idroelettriche, deforestazione, costruzione di strade. Abbiamo vinto in centinaia di casi, ma spesso il governo va avanti, incurante delle decisioni dei tribunali».

Ezgi arriva a Gezi ogni giorno alle 18, quando finisce di lavorare come psicologa. Ogni giorno dal 28 maggio. È una delle prime occupanti del parco per il quale si batte da quasi due anni insieme a Nogay e agli altri. «La nostra battaglia contro il progetto di trasformazione di Taksim e Gezi è iniziata quasi due anni fa. Abbiamo organizzato ogni possibile azione di protesta e sensibilizzazione, da serate informative a marce di protesta a concerti nel parco. Poi a inizio maggio abbiamo proiettato il documentario Occupy Love e da lì è nata l’idea di occupare il parco se le nostre richieste non fossero state accolte».

Ezgi ha vissuto alcuni anni a San Francisco e là ha molti contatti con attivisti di Occupy Oakland. Pensare a un’occupazione come quelle che abbiamo visto nei parchi e nelle piazze statunitensi alla fine del 2011 è stato naturale».

All’inizio l’occupazione era sostenuta da poche decine di persone, principalmente intellettuali, artisti e giovani studenti. Come Rasim, che ha 21 anni e studia tedesco all’università e il 20 maggio, insieme a un gruppo di amici, ha deciso di usare il sito change.org per lanciare una petizione per la difesa del parco. E non è un caso che l’iniziativa sia stata presa il 20 maggio. Il 19 in Turchia si celebra la «Giornata dei giovani e dello sport» in ricordo dello sbarco di Mustafa Kemal Ataturk a Samsun nel 1919, avvenimento che aprì la guerra di indipendenza turca. Da due anni, però, il governo di Erdogan ha vietato le celebrazioni con la scusa che portavano via tempo allo studio.

Ed è solo una delle numerose iniziative di Erdogan volte a colpire la memoria di Ataturk, il padre della patria ancora amato da moltissimi turchi.

Ezgi mi fa visitare l’occupazione e mi spiega le difficoltà con cui si sta costruendo una comunità tra le persone che occupano a titolo personale fin dall’inizio e i gruppi e partiti politici che si sono uniti dopo, quando la repressione violenta della polizia ha attirato l’attenzione su Occupy Gezi. Le sue competenze di psicologa e terapista, ora, sono al servizio di queste persone che non avevano l’abitudine di partecipare a iniziative politiche e che sono state violentemente represse dalla polizia. «Questa volta la repressione della polizia è stata diversa da, per esempio, quella del 1 maggio: ha colpito persone comuni ed è scattato un meccanismo di identificazione che ha portato tanti a unirsi alla protesta». E il resto è storia.

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