Il sistema di potere del Fashion System è gestito dalle multinazionali del lusso e dalle multinazionali dell’informazione. Le prime controllano la filiera del prodotto attraverso il controllo della produzione e della distribuzione. E, infatti, i loro fatturati sono in costante crescita perché negli anni della crisi economica hanno invaso i mercati ricchi (Far East soprattutto), con le loro vetrine. Le seconde controllano l’immagine attraverso il network di pubblicazioni che omologano il gusto ai quattro angoli del mondo. Così avviene sia per l’americana Condé Nast, che con Vogue è presente in 19 Paesi nel mondo, sia per la concorrente Hearst, che per Harper’s Bazaar ha persino nominato un solo direttore moda globale che gestisce l’immagine delle 11 maggiori edizioni internazionali.

Roba che il Grande Fratello di Orwell non avrebbe potuto immaginare e che fa effetto anche ai più fanatici teorici della globalizzazione.
Anche le Fashion Week, cioè le settimane di presentazioni e di sfilate che si svolgono, oltre che a Milano, Parigi, New York e Londra, ai quattro angoli del mondo, da Sao Paulo a Mosca, New Delhi, Tokyo, Los Angeles e ovunque, sono un mezzo di esercizio del potere. Naturalmente, per storia, tradizione, qualità creativa e quantità di fatturati che sviluppano, Parigi e Milano sono le principali, anche se da qualche anno la New York cerca di rivoluzionare tempi e calendari a proprio favore per un malinteso senso di supremazia dovuto soprattutto al fatto che proprio a New York risiedano le principali case editrici di informazione di moda e non certo al fatto che la moda americana abbia i caratteri dell’internazionalità.

Che le multinazionali del lusso gestiscano il potere nella moda sembra quasi logico: investono, producono, distribuiscono, spendono e guadagnano. Che lo gestiscano le multinazionali dell’informazione americana è meno logico, tanto più che appare come una vera contraddizione con il principio anglosassone della separazione fra informazione e potere.
Ecco perché molti sono scandalizzati dal potere di Anna Wintour, la direttrice di Vogue America che molti conoscono per la caricatura cucitale addosso ne Il Diavolo veste Prada e che ormai viene indicata come artefice dei destini di stilisti, aziende e fortune negli Usa e in Europa. In Italia i giornali ne parlano come se il suo fosse un potere lecitamente scontato, talmente siamo abituati ai conflitti di interesse (domenica un grande quotidiano la indicava come artefice di alcune nomine di direttori creativi in Francia).

Ma anche negli Usa non si trova scandaloso che nel suo ruolo rientri un ufficio di collocamento perché gli americani amano esportare il loro stile di vita. Per cui, come appare lecito che il loro governo esporti la democrazia nel mondo così sembra logico che qualcuno di loro esporti il senso della moda. Della prima esportazione conosciamo gli effetti disastrosi. Della seconda i presupposti non sono diversi: nell’omologazione la moda muore.
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