La celebrazione delle date importanti non è sempre uguale. Perché la memoria stessa è soggetta alla storia, e le cose si ricordano in modo diverso a seconda dei tempi. Talvolta si è invece ripetitivi: è quando non ci sono particolari e nuove ragioni che spingono a ripensare l’evento commemorato. E perciò resta un rituale. Quante volte nei tanti 8 marzo della mia vita mi è accaduto di sbuffare per il fastidio della ripetitività. Poi scoppiò il nuovo femminismo e quella giornata si arricchì di una carica innovativa che ci fece tornare con gioia a distribuire mimose.

Per il 25 aprile non ho sbuffato mai, ma è vero che, passato il peggio della guerra fredda – quando i governi dc arrestavano i partigiani, o quando arrivò Tambroni – anche la Resistenza rimase spesso immobile. Oggi, 2015, è evidente a tutti che la data è caldissima, un’urgenza attuale nella nostra agenda. Per via di un suo specifico aspetto: non tanto perché chi ne fu combattente riuscì a cacciare i tedeschi , che pure non è poco. Piuttosto perché è in quegli anni ’43-45 che vennero poste le fondamenta – per la prima volta – di uno stato democratico in Italia. Che oggi mi pare in pericolo, non perché assalito dai fascisti, ma perché eroso dal di dentro.

Noi uno stato popolare, legittimato a livello di massa, non l’avevamo avuto mai : il Risorgimento, come sappiamo, fu assai elitario e produsse una partecipazione assai ristretta, estranee le classi subalterne; i governi della nuova Italia nata nel 1860 restano nella memoria dei più per la disinvoltura con cui generali e prefetti sparavano su operai e contadini. Poi venne addirittura il fascismo.

A differenza del maquis francese o della resistenza danese o norvegese, la nostra non aveva proprio nulla da recuperare, niente e nessuno da rimettere sul trono. Si trattava di inventarsi per intero uno stato italiano decente, e dunque democratico. (Come in Grecia, del resto, dove però una pur straordinaria Resistenza non ce l’ha fatta).

Non è una differenza di poco. E se la Resistenza italiana ci ha permesso di riuscirci, è anche perché è stata la prima volta in cui in Italia le masse popolari hanno partecipato massicciamente e senza essere inquadrate dai borghesi alla determinazione della storia nazionale.

E anche per un’altra ragione: perché il dato militare, e quello strettamente politico – l’accordo fra i partiti antifascisti – pur importanti, non esauriscono la vicenda resistenziale. Un ruolo decisivo nel caratterizzarla l’ha avuto quello che un grande storico, comandante della brigata Garibaldi in Lunigiana, Roberto Battaglia, chiamò “società partigiana”. E cioè qualcosa di molto di più del tratto un po’ giacobino, o meglio garibaldino, dell’organizzazione militare più i civili che ne aiutarono eroicamente la sussistenza; e cioè l’autorganizzazione nel territorio, l’assunzione, grazie a uno scatto di soggettività popolare di massa, di una responsabilità collettiva, per rispondere alle esigenze della comunità, il “noi” che prevalse senza riserve sull’ “io”.

L’antifascismo come senso comune, più che nella tradizione prebellica, ha origine in Italia da questo vissuto, nell’ esperienza autonoma e diretta di sentirsi – «attraverso scelte che nascono dalle piccole cose quotidiane», come ebbe a scrivere Calamandrei – protagonisti di un nuovo stato, non quello dei monumenti dedicati ai martiri, ma quello su cui hai diritto di decidere, di una patria che non chiede sacrifici ma ti garantisce protezione, legittima i tuoi bisogni, ti dà voce. E’ la comunità, insomma, che si fa Stato, a partire dal senso di appartenenza.

La Costituzione partorita dalla Resistenza riflette proprio questa presa di coscienza, e infatti definisce la cittadinanza come piena appartenenza alla comunità. Non avrebbe potuto essere così se, ben più che da una mediazione di vertice fra i partiti, non fosse nata proprio da quella esperienza diretta che fu la “società partigiana.” E dalle sue aspirazioni. Per questo ha una ispirazione così ugualitaria e formulazioni in cui è palese lo sforzo di evitare formule astratte. E’ di lì che viene fuori quello straordinario articolo ,per esempio, che dice come, per rendere effettive libertà e uguaglianza”, sia necessario “rimuovere gli ostacoli che le limitano di fatto”.

Proprio riflettendo su quanto da più di un decennio sta accadendo, a me sembra che la crisi visibile della democrazia che stiamo vivendo non sia solo la conseguenza del venir meno di quel patto di vertice, e dei partiti che l’avevano sottoscritto, ma più in generale dell’impoverirsi del tessuto politico-sociale che ne aveva costituito il contesto. E se è possibile l’attacco che oggi si scatena contro la Costituzione è proprio perché la nostra società non è più “partigiana”, ma passiva, privata di soggettività, estranea alla politica di cui non si sente più, e infatti non è più, protagonista, chiusa nelle angustie dell'”io”, sempre meno partecipe del destino dell’altro, lontana dal declinare il “noi”.

Non ci sarà esito positivo agli sforzi che in molti, e da punti di partenza anche differenziati, vanno facendo per uscire dalla crisi della sinistra se non riusciremo a risuscitare prima soggettività e senso di responsabilità collettiva . Non riusciremo nemmeno a salvare la Costituzione, e finiremo anche per cancellare la specificità della Resistenza italiana. Quell’attacco mira proprio ad impoverire l’idea stessa della democrazia che essa ci ha regalato, riducendola a un insieme di regole e garanzie formali e individuali, non più terreno su cui sia possibile esercitare potere.

Stiamo attenti a come celebriamo il 25 Aprile. Berlusconi, quando per una volta si degnò di partecipare a una iniziativa per il 25 aprile – fu ad Onna, subito dopo il terremoto d’Abruzzo – ebbe a dire che sarebbe stato meglio cambiare il nome della festa: non più “della Liberazione”, ma “della Libertà”. Proposta furbissima: la sua dizione richiama infatti un valore astratto calato dal cielo, la nostra dà conto della storia e racconta chi la libertà ce l’aveva tolta e cosa abbiamo dovuto fare per riconquistarla. Se smarriamo la storia cancelliamo il ricordo delle squadracce fasciste al soldo degli agrari e dei padroni che bruciarono le Camere del lavoro, la violenza contro le organizzazioni popolari; depenniamo la Resistenza stessa e sopratutto il ruolo che ha avuto nel costruire un nuovo stato italiano democratico.

Rischiamo di dimenticare che per mantenere la libertà c’è bisogno di salvaguardare la Costituzione e per farlo di ricostruire una “società partigiana” per l’oggi: uno scatto di soggettività, di assunzione di responsabilità, un impegno politico collettivo, rimettere il “noi” prima dell'”io”.
Sapendo che oggi il “noi” si è estremamente dilatato. Non è più quello di chi vive attorno al campanile, e nemmeno dentro i confini nazionali. Il mondo è entrato ormai nel nostro quotidiano, lo straniero – e con lui la politica estera – lo incontriamo al supermarket, all’angolo della strada, nella scuola dei nostri figli. La sua libertà vale la nostra, la nostra senza la sua non ha più senso. Per questo non è pensabile festeggiare il 25 Aprile senza palestinesi e immigrati, così come senza gli ebrei che da qualche parte patiscono tutt’ora l’antisemitismo. Non è debordare dal tema “Liberazione” sentirsi parte, vittime e però anche responsabili, di tutti i disastri che affliggono oggi il mondo.