A indovinare il titolo fu Umberto Saba che il giovane Pier Antonio Quarantotti Gambini (Pisino d’Istria 1910 – Venezia 1965) andava a trovare, ricevendone l’umanissimo oracolo, nella libreria antiquaria di via san Nicolò a Trieste: lo attesta una lettera, datata 12 settembre 1945, in cui il poeta gli confessa che mangiando una fetta di anguria nell’estate ritardataria di piazza Monterosso gli era venuto in mente che si trovava nello stesso luogo pronubo di un altro titolo, quello solo suo e molto fortunato, La serena disperazione. Presagendolo alla stregua di un moto interiore subitaneo, squassante come può avvenire soltanto nell’adolescenza, ora lo suggeriva al suo giovane amico nella lettera poi di prefazione, appunto, a L’onda dell’incrociatore (Mondadori «Oscar Moderni», pp. 203, € 13,00), il romanzo breve la cui prima stampa esce da Einaudi alla fine del ’47. Quarantotti Gambini non è affatto un esordiente perché ha alle spalle racconti e prose di romanzo edite nel decennio trascorso in riviste di punta quali «Solaria» e «Pan», poi durante la guerra, già da Einaudi, il notevole racconto Le trincee. La sua formazione sembra essere avvenuta d’emblée dentro uno sguardo asciutto, sottile, che ha assorbito una volta per sempre la luce dilagante dell’Istria nativa, una impronta che non verrà mai meno come fosse per lui un tratto elettivo e nello stesso tempo una ipoteca. Fatto più unico che raro per uno della sua generazione, non ha nulla ma proprio nulla del prosatore d’arte perché la sua pagina è rapida, asciutta, attenta alla osservazione dei fatti dove è compresa la stessa auscultazione delle psicologie: tutto questo senza un fronzolo, senza il tipico «far bello» che rende per lo più illeggibile (talora grottesca come un cifrario o un involontario latinorum) la prosa italiana fra le due guerre, insomma la prosa silenziosamente assoggettata al clima fascista.
L’onda dell’incrociatore ha la struttura classica di un romanzo di formazione che si dirama in tre parabole distinte che ora divergono ora invece si intrecciano. La scena è a Trieste al tempo della guerra d’Africa, il luogo è l’antico mandracchio dove stanno i circoli dei canottieri con le case galleggianti, i cosiddetti pontoni, in cui abitano le famiglie dei custodi. Lì brucia l’adolescenza di Berto, di Lidia sua sorellastra e del loro amico Ario (il personaggio su cui si concentra il narratore), un ragazzo il cui padre è fuggito in America per le leggendarie regate di San Francisco e vive con sua madre, una donna cupa, introversa, ostruita nei suoi stessi affetti. Quasi fosse un catalizzatore o la posta in gioco, al centro del triangolo si pone la figura di Eneo, aitante canottiere e campione di virilità, il quale seduce tanto i due giovani maschi (nel senso che lo percepiscono entrambi come un modello inattingibile di perfezione) quanto le due donne, la madre di Ario e la giovanissima Lidia da lui sciupate, con noncuranza e ostentato distacco, nei rispettivi sogni di liberazione da un ambiente tetro e recluso. Succede ogni cosa, in quel triangolo dove si rilancia di continuo un desiderio mimetico che si direbbe à la René Girard, ma non vi accade veramente nulla che non sia la permanenza degli odori e dei sapori del porto, del catrame e del sudore, della voglia cupa che pervade le tre adolescenze miserabili: e l’onda d’urto che apre ma anche squassa il finale del romanzo, con un senso aleggiante di morte o di sconvolta mutazione, è il suggello necessario, fatale, di questo piccolo capolavoro.

Fortini: sesso e adolescenza
Quando esce L’onda dell’incrociatore, un recensore che non ci aspetteremmo, Franco Fortini («Due storie di ragazzi» in Avanti!, 13 novembre 1947), associa il romanzo in antifrasi al contemporaneo esordio di Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, per riconoscere nel primo un’amara storia di sesso e adolescenza la cui strategia permette di vedere «chiaramente i corpi e i colori e li pone sotto le pupille del lettore con un procedimento non artificioso, immediato, persino ingenuo, fatto di insistenza e di ripetizioni». E d’altronde, in una lettera del 29 agosto 1953 (poi ne Il vecchio e il giovane. Carteggio 1930-1957, a cura di Linuccia Saba, Mondadori 1965) il suo maestro poeta ne avrebbe colto il paradosso narrativo con esattezza disarmante: «Ho capito qual è il fascino dei tuoi racconti. Pare che tu debba dire chissà che cosa (occuparti cioè di grandi fatti ecc.), invece tutto poi si riduce a quasi nulla e quel nulla poi diventa tutto. Un po’ come accade nella vita». Ciò chiarisce la obiettiva difficoltà di ricondurre la narrativa dello scrittore istriano a un qualche plot preordinato e smaschera l’impresa disperata di tradurne le pagine nel linguaggio del cinematografo: lo analizza con acume Luciano De Giusti in Quarantotti Gambini e il cinema.Trasfigurazioni di una poetica (Kaplan 2015) riferendosi in particolare a Le regate di San Francisco (1960), il film in cui l’esponente di un cinema velleitario nelle sue pretese artistiche, Claude Autant-Lara, volle tradurre quel piccolo capolavoro: e fu, alla lettera, un disastro, anche perché Quarantotti Gambini è un autore inclassificabile, non solo per l’origine storico-geografica tanto defilata ma per l’estraneità alle poetiche dominanti nel secolo, prima alla prosa d’arte poi al neorealismo e quindi allo sperimentalismo. Semmai si tratta di uno scrittore esistenzialista, ma sempre a patto di non chiuderlo in una astrazione intellettuale che sta agli antipodi della sua immaginazione, viceversa concreta e sempre fisicamente incarnata.

La stroncatura di Debenedetti
Lo dicono le opere successive a cominciare dal ciclo che tempo dopo la sua morte, Gli anni ciechi (Einaudi 1971, a cura del fratello Alvise), avrebbe trovato una prima sistemazione con le tessere del mosaico istriano riordinato intorno al personaggio autobiografico di Paolo Brionesi Amidei e comprensivo tra gli altri di Amor militare (’55), Il cavallo Tripoli (’56) e Le redini bianche (postumo, ’67). A parte, esorbitante monolite e summa di tutti i suoi temi, c’è il romanzo La calda vita (’58), ancora una vicenda d’amore triangolare che gli valse, così scomposta da essere sospetta, una solenne stroncatura di Giacomo Debenedetti nientemeno («Non è vita la “calda vita”», poi in Intermezzo, Mondadori 1963). Ciò non toglie che egli abbia avuto sponsores sempre di prim’ordine, da Italo Calvino, suo patrocinatore presso Einaudi, a Giorgio Bassani e Niccolò Gallo, da Carlo Bo e Riccardo Scrivano a uno scrittore attuale come Mauro Covacich, cui si deve la benemerita edizione delle Opere scelte (Bompiani 2015), e a un critico come Raffaele Manica che (in La prosa nascosta, Avagliano 2002) coglie il dato generativo della narrativa di Quarantotti Gambini nella impercettibile «oscillazione fra crudeltà e innocenza».
Ora gli «Oscar» Mondadori finalmente lo propongono secondo un piano organico: dopo L’onda dell’incrociatore, e il memoir intitolato Primavera a Trieste (1951, adesso nell’ottima curatela di Elvio Guagnini) sono intanto previsti, tra gli altri, i romanzi intermedi Amor militare e Il cavallo Tripoli, frazioni del complessivo Bildungsroman di un autentico poeta dell’adolescenza. Anche questo aveva divinato, per lui ventenne appena, Umberto Saba in una lettera del 31agosto 1930: «Quando la tua giovinezza starà per morire, farai del tuo romanzo familiare il tuo più bel libro».