Nella lotta al terrorismo ormai da decenni i diritti civili vengono sempre più intaccati dalla «ragion di Stato», creando una vasta zona grigia in cui le libertà individuali, il rifiuto della tortura e la stessa libertà di stampa sono messi in discussione dalla proclamata necessità di prevenire e combattere gli attentati.
Nato come un’indagine dall’interno del fondamentalismo islamico in Norvegia, Recruiting for Jihad (2017) di Adel Khan Farooq e Ulrik Imtiaz Rolfsen – in programma in questi giorni nella rassegna Mondovisioni di Internazionale, cominciata ieri a Roma al Palazzo delle Esposizioni – si trasforma nel corso delle riprese, iniziate nel 2014, proprio in una riflessione obbligata su questa zona grigia.

Protagonista del film è infatti Ubaydullah Hussain, il leader della norvegese Comunità del Profeta che consente ai registi un accesso alla sua vita quotidiana a patto che tutti i contatti con la «comunità» – che sarebbe il gruppo di fondamentalisti di cui è a capo – passi attraverso di lui. Innamorato delle attenzioni della stampa e della macchina da presa, Ubaydullah fornisce un punto d’accesso a un mondo all’apparenza impenetrabile – quello dei sostenitori dell’Isis, che vedono il sedicente califfato come «l’unico ’paese’ esistente in cui si segue la legge di Allah». Tra le sue attività c’è anche fare proselitismo, e capiamo presto che la sua missione non riguarda solo le conversioni religiose ma il vero e proprio reclutamento di foreign fighters che raggiungeranno la Siria o la Libia per combattere nelle file dell’Isis.

In pochi mesi di riprese, i registi si imbattono infatti in più di un terrorista destinato a finire sulle pagine dei giornali poco dopo – come il diciannovenne londinese Brusthom Ziamani, condannato a 22 anni di prigione perché giudicato colpevole di voler attentare alla vita di un soldato inglese. O come il ragazzo norvegese Thom Alexander, intervistato dai registi per le strade di Oslo cinque mesi prima della sua morte in Siria. Ed è quando Ubaydullah invita Farooq ad assistere alla partenza di un nuovo aspirante jihadista per la Siria – il diciottenne Peter – che il documentario prende una piega inaspettata: il ragazzo viene arrestato all’aeroporto di Goteborg, e quella stessa mattina tutto il girato di Recruiting for Jihad viene sequestrato dai servizi segreti.

Inizia così una lunga battaglia legale per non stabilire un pericoloso precedente: se infatti il tribunale convaliderà il sequestro renderebbe di fatto impossibile per i giornalisti tutelare le proprie fonti. Una lotta in cui prevalgono infine le ragioni della libertà d’espressione, e che devia il documentario dalle attività di Ubaydullah – arrestato di lì a poco e condannato per due volte a 9 anni per il reclutamento di Thom e Peter – verso una riflessione sui propri mezzi e la propria stessa natura.
E la libertà d’espressione – garantita dal primo emendamento della Costituzione americana – è al cuore anche di un altro documentario presentato nella rassegna di Mondovisioni: Alt Right – Age of Rage di Adam Bhala Lough, stavolta in un’ottica problematica. Al centro del film c’è infatti il desiderio di comprendere il mondo dell’Alt Right Usa all’indomani degli scontri di Charlottesville dove ha perso la vita la militante antifascista Heather Heyer e dove la destra estrema – neonazista, suprematista, del Ku Klux Klan – ha alzato la testa con orgoglio e ha ricevuto un’informale benedizione dal presidente Donald Trump.

L’intenzione da subito dichiarata del regista è quindi quella di comprendere l’universo dell’Alt Right – una destra estrema nuova e antica allo stesso tempo che sotto la presidenza Trump ha avuto una crescita e una legittimazione senza precedenti. A questo scopo il regista dialoga soprattutto con Richard Spencer, il suprematista bianco che ha coniato il termine Alt-Right e che auspica una «pacifica pulizia etnica» degli Stati uniti. È da subito chiaro come per lui e per coloro che condividono le sue idee, il free speech garantito dalla costituzione è un paravento per poter propagandare odio e razzismo – e l’appiglio per ribaltare le carte e presentarsi come le vittime di chi vorrebbe privarli del loro diritto di esprimersi.
Il regista lascia però che a rispondere a queste pericolose teorie sia quello presentato schematicamente come lo schieramento opposto – militanti antifascisti, studiosi del Southern Poverty Law Center – rinunciando a ogni ruolo attivo nel rapporto con i suoi protagonisti e il loro odio.