Il 31 maggio scorso, la Cina ha annunciato che permetterà alle coppie di avere fino a tre figli. La notizia è arrivata solo poche settimane dopo la pubblicazione dei dati dell’ultimo censimento, secondo cui, nonostante la politica del figlio unico sia stata abolita nel 2016 in favore di un indirizzo che prevedeva due figli per coppia, nel 2020 si è registrato il più basso numero di nascite dagli anni ‘60.

I cinesi, però, non sembrano aver reagito con l’entusiasmo sperato. A scoraggiare le giovani coppie dall’idea della famiglia numerosa è soprattutto il costo della vita nelle grandi città ma, nel caso delle donne, anche la carenza di misure di tutela in ambito lavorativo. Sono soprattutto le giovani professioniste, infatti, a guardare con occhio critico alla nuova politica di pianificazione delle nascite. La reazione è dovuta anche alla percezione che, in nome dello sviluppo della nazione, le autorità reprimono la soggettività e l’autonomia decisionale delle donne rispetto alla scelta della maternità. Tutto ciò si accompagna alle nuove rivendicazioni del femminismo cinese che, portato alla ribalta internazionale dal fenomeno del #MeToo, oggi esprime, in alcune sue correnti, una critica rispetto agli ideali di femminilità e famiglia imposti alle donne dalla società e dal governo di Pechino.

Per affrontare questi temi abbiamo intervistato Lijia Zhang. Ex operaia in una fabbrica di missili a Nanchino, poi giornalista e autrice di «Socialismo è Grande!: Memorie di un’operaia nella Nuova Cina» (2009) e «Lotus» (2017), Lijia Zhang è una voce importante del femminismo cinese, che ha il merito di aver riportato la prospettiva di genere al centro del dibattito sui cambiamenti politici e socio-economici del suo paese.

Cominciamo dalla cronaca: qual è stata la reazione della società civile cinese alla politica del terzo figlio?
Nel complesso, la reazione è stata poco entusiasta. La notizia è stata accolta con perplessità, cinismo, derisione e persino rabbia.

In fondo questo nuovo indirizzo di pianificazione familiare concede, ma non esige, che le coppie abbiano tre figli. Come spieghi questo malcontento?
Sì, è vero. Le coppie sposate possono avere tre figli, ma non sono obbligate. Ciò nonostante, non è difficile capire il malcontento; le coppie di giovani cinesi si trovano in condizioni economiche e materiali tali per cui semplicemente non possono pensare di mantenere tre figli. Molti faticano già con un figlio solo; o addirittura non possono permettersi di averne. Solo le famiglie ricche possono permettersi tre figli e, in questa situazione, molti si sentono frustrati. Altri mal tollerano che il governo fino a pochi anni fa abbia limitato il numero di nascite e oggi incoraggi ad avere più figli senza offrire alcun aiuto pratico. Il sentimento prevalente è che le autorità abbiano bypassato il punto di vista dei cittadini rispetto alla questione.

Sembra che oggi molti giovani cinesi, in particolare le giovani donne, siano sempre meno entusiasti all’idea di avere figli. A cosa è dovuta questa riluttanza?
Prima di tutto, la vita in Cina oggi è costosa, così come lo è crescere un figlio, specialmente se si pensa al costo dell’educazione. Anche se l’istruzione è obbligatoria e gratuita per nove anni, i genitori, specialmente nei grandi centri urbani, fanno a gara per iscrivere i loro figli a lezioni supplementari e ad attività extracurricolari, come lezioni di pianoforte e di inglese. Un altro problema è la limitata disponibilità di strutture per la prima infanzia. Si stima che solo lo 0,5% dei bambini da 0 a 3 anni possa andare all’asilo. Le giovani coppie sono costrette ad affidarsi ai genitori o ad assumere baby-sitter, affrontandone i costi. La tendenza a non avere figli è guidata dalle donne: soprattutto professioniste, che vivono in città e sono altamente istruite, perché hanno più da perdere e perché sono rese più assertive da internet e dal contatto con realtà internazionali. Molte esitano ad avere figli a causa del sessismo nel mercato del lavoro. Alcune aziende cinesi, infatti, si rifiutano di assumere donne in età fertile o le licenziano se rimangono incinte. Ho sentito storie di donne che dovevano promettere di non avere figli come condizione preliminare all’assunzione. Per affrontare la questione, nel 2019 il governo ha vietato ai datori di lavoro di chiedere alle donne se sono sposate o hanno figli durante i colloqui. Le intenzioni sono buone, ma i risultati concreti a dir poco insufficienti. Per le donne che hanno scalato posizioni manageriali, c’è poi la preoccupazione che avere figli possa compromettere la loro carriera. Il fatto che in molti posti di lavoro si crei un ambiente ostile verso le madri lavoratrici ha dissuaso molte donne dalla maternità. Vale anche la pena notare che l’atteggiamento delle persone verso la procreazione è cambiato drasticamente. Una volta era parte dei doveri filiali. Un antico detto cinese recita: “Delle tre azioni che tradiscono la pietà filiale, la peggiore è non avere figli”. Pochi dei giovani d’oggi, molti dei quali sono figli unici focalizzati sulla realizzazione di sé, considerano l’avere figli come un dovere da compiere.

Ultimamente si è parlato molto anche di donne che abbracciano i principi associati al “6B4T”: un movimento che esprime il rifiuto radicale del matrimonio e della maternità. Di cosa si tratta e quali bisogni esprime?
Il 6B4T è un movimento femminista nato in Corea del Sud nel 2019 che riunisce donne decise ad escludere gli uomini dalla loro vita, rifiutando così i ruoli di mogli e madri, che hanno origine nel patriarcato. Le «6B» e le «4T» consistono nel non avere relazioni romantiche o sessuali con gli uomini; non sposarsi o avere figli; non comprare prodotti misogini; rifiutare gli standard di bellezza e l’iper-sessualizzazione delle donne nell’industria culturale; e offrire aiuto ad altre donne single. Come le sorelle coreane, alcune donne cinesi hanno rifiutato il matrimonio e la maternità. Il motivo è che a causa del ruolo di mogli e madri, non sono trattate al pari degli uomini, ma anche che non vedono più il matrimonio o la maternità come condizioni necessarie alla felicità. Da quanto ho capito, alcune delle seguaci del 6B4T sono soggettività LGBTQ+, ma non tutte. In alcuni casi, credo che siano anche solo donne deluse o traumatizzate dalle loro esperienze con gli uomini. Sono per lo più giovani, urbane e istruite. Non trovo sorprendente il fenomeno del 6B4T. Storicamente, le donne hanno fatto tesoro del sostegno e della solidarietà che esiste in spazi esclusivamente femminili. Nell’antichità, si credeva che la poetessa Saffo vivesse in una comunità di sole donne. Negli anni ‘60, l’attivista americana Roxanne Dunbar-Ortiz fondò «Cell 16», un’organizzazione che faceva appello al celibato, alla separazione dagli uomini e all’addestramento all’autodifesa e che ha portato alla creazione del femminismo separatista. Ancora, negli anni ‘90, l’attivista e scrittrice britannica Finn Mackay ha vissuto in un campo di pace antinucleare per sole donne nel nord dello Yorkshire. Nonostante ciò, i forum online associati al 6B4T sono stati censurati perché considerati estremisti e portatori di pensieri politici e ideologici radicali. Ora, posso immaginare che in un momento in cui la natalità in Cina sta diminuendo, le autorità non siano felici di sapere della determinazione di alcune donne a non sposarsi o procreare. Ma in fondo è davvero una posizione così radicale?

Il femminismo cinese è stato portato all’attenzione internazionale dal #MeToo. Pensi che correnti come il 6B4T possano essere considerate la nuova cifra del femminismo in Cina?
Il #MeToo non è diventato un vero movimento in Cina grazie al controllo e alla censura, ma è stato importante che le donne abbiano parlato degli abusi subiti. Penso per esempio a Zhou Xiaoxuan, detta Xianzi, che è diventata il volto del #MeToo cinese dopo aver fatto causa al famoso conduttore televisivo Zhu Jun per molestie sessuali. Non solo: il #MeToo ha anche incoraggiato le donne a passare ai fatti. Le donne cinesi hanno trovato modi anche molto creativi per portare la parità di genere nel dibattito pubblico. La cantante Tai Weiwei, ad esempio, ha preso parola sulla violenza domestica e la comica stand-up Yang Li, conosciuta come la «regina delle punchline», è diventata famosa grazie al suo prendere brutalmente in giro il privilegio maschile. Per quanto riguarda il 6B4T, credo sia sintomo che la società cinese si sta diversificando e mi auguro che diventi anche più inclusiva. Detto questo, le aderenti al 6B4T sono una netta minoranza.

In un articolo sul South China Morning Post ha sottolineato che la censura online del 6B4T potrebbe aver avuto l’effetto non voluto di portare il fenomeno all’attenzione del pubblico. Anche in questo caso, come per la politica del terzo figlio, la società civile non ha reagito come Pechino sperava. Pensi che il controllo possa essere controproducente?
In realtà, penso che per certi versi il controllo sia efficace. Ad esempio, penso che senza la censura e il controllo del governo, il movimento #MeToo sarebbe cresciuto in Cina ben più di quanto sia stato possibile. D’altra parte, sono sicura che le giovani donne troveranno modi sempre nuovi di continuare la loro lotta.