Una delle peggiori esperienze che si possa fare di se stessi è il vivere in un tempo sospeso, dove i rapporti, le relazioni, gli scambi avvengono in una sorta di vuoto pneumatico, scandito esclusivamente dalle improvvise curve dettate da emergenze tanto estemporanee quanto consecutive, alle quali si può dare un’unica risposta, quella di ritrarsi ancora di più, di quanto già non sia, nel recinto dell’autodifesa non avendo altri strumenti. Il tempo della pandemia, nella sua angosciante monotonia, cancella la visione prospettica, l’orizzonte non solo del fare ma anche dell’essere insieme agli altri. È un tempo inedito che, tuttavia, ha molto ha a che fare – nella nostra storia – con l’agonia del regime fascista quando, a fronte dell’impotenza dei molti, un intero sistema politico, istituzionale ma in parte anche sociale e culturale declinava, fino a crollare con l’8 settembre. Va da sé che l’accostamento tra due età e due eventi così diversi, sia tanto suggestivo quanto, per più aspetti, improprio. Almeno sul piano storico. Ma se si parla di quella percezione dell’immobilismo che connotò il declivio, e poi la catastrofe, dell’Italia nel 1943 e la si confronta con il senso di paralisi che a volte sembra essere subentrato nelle nostre società, poste dinanzi ad un transito epocale, dettato da una situazione sanitaria del tutto straordinaria, qualche analogia la si può pure trovare.

IL FENOMENO della Resistenza, non solo in quanto evento militare, quindi armato e poi politico, ma come processo di ristrutturazione sociale e civile della società italiana e di quella europea, costituì una rottura con il senso di inesorabilità che ogni declino altrimenti porta con se stesso. È declino, infatti, la diffusa percezione di non potere ovviare con le proprie energie alla deriva in atto. Il tempo vuoto è un tempo di annichilimento e di passività, dove gli individui vivono la condizione di perdita della loro residua capacità decisionale. A partire dalla traiettoria dell’esistenza propria.
Il fascismo, storicamente, produce l’immobilismo di massa, l’incapacità di pensarsi come soggetti decisionali, la delega assoluta nel nome di una protezione dalle paure che abitano l’individuo contemporaneo. La lotta di Liberazione fu invece un esercizio collettivo di riappropriazione che non poteva passare diversamente se non attraverso uno strappo collettivo, quella frattura che rimise in moto il tempo e, con esso, la storia medesima. Poiché è storia ciò che chiama in causa la coscienza di sé degli individui, in quanto soggetti sociali. Mentre è paralisi quanto cancella una tale dimensione.

IL SETTANTACINQUESIMO anniversario della Liberazione si celebra in un’epoca che è contrassegnata da una commistione di incertezze, timori, percezioni nonché, non di meno, poche speranze. Soprattutto, vi è la diffusa sensazione che molte delle cose appena trascorse non saranno più come prima. Tra di esse, in tutta plausibilità, anche lo stato dei diritti, che stanno subendo le tensioni e le torsioni dettate da un radicale mutamento di prospettive, nel mondo del lavoro come anche in quello, ancor più ampio, delle relazioni sociali. A fronte di ciò, dinanzi a una ricorrenza che avrebbe voluto essere gioiosa e partecipata e che invece è obbligata dai vincoli e dalle prescrizioni di una lunga quarantena, non solo dei corpi ma anche dei pensieri, si pongono in agenda diversi problemi. C’è un cambio di passo nella memoria storica, venendo oramai a mancare del tutto i protagonisti di quella stagione, che iniziò nel settembre del 1943 ma che si protrasse ben oltre l’aprile del 1945, rinnovandosi, in altre forme, in età repubblicana, almeno fino agli anni Settanta. È questo il suggello della «continuità della Resistenza», laddove il lungo tempo riannoda lotta armata a conflitto politico, identità sociale a rivendicazione dei diritti.
È il rifiuto dell’omologazione e dell’uniformazione ciò che fa della lotta di Liberazione una stagione che non si concluse con la fine del conflitto armato, proseguendo semmai ben oltre.
Trattandosi, semmai, della costruzione di uno spazio – quello del conflitto politico – che fino ad allora era invece mancato. A fronte di ciò si pone, a tutt’oggi, un ricordo istituzionale oramai tanto stanco quanto puramente celebrativo, iconico, proteso all’apologia non di quelle persone, dei fatti e delle relazioni che allora si produssero ma, piuttosto, all’auto-panegirico. Si tratta di un insieme di procedure vuote, concave, esse stesse collocate in un tempo sospeso che annulla l’autenticità, la veracità, la contraddittorietà che la storia sempre e comunque incorpora in se stessa.

QUELLE PROCEDURE che trascinano stancamente nelle vuote stanze della cristallizzazione del passato, fingendo di non cogliere quello che fu il vero atto di fondazione del partigianato, ossia la dissoluzione delle istituzioni fasciste e regie, e con esse delle reti di protezione che simulavano di potere garantire. Fu infatti in quelle drammatiche, se non catastrofiche, settimane che si consumò la vera matrice dei processi a venire, ossia il tradimento. E la risposta a esso. Gli italiani vennero abbandonati a loro stessi e dovettero in qualche modo scegliere, senza però avere gli strumenti per farlo in piena coscienza. Ritorna, più che mai in questo caso, il tema del vuoto pneumatico. Vent’anni di diseducazione politica del fascismo contavano.
L’auto-organizzazione fu un fatto non tanto miracoloso e provvidenzialistico quanto profondamente rigenerativo. Basato sulla ricerca, a partire da se medesimi, delle ragioni non solo di un’opposizione ma di una diversa visione dell’esistenza, libera dalla necessità di incatenarsi al ricatto della paura di cui i fascismi, di ogni epoca e tempo, allora come oggi, sono al medesimo modo l’apoteosi e i beneficiari. La visione sobria e laica del passato, quella avulsa dalla celebrazione fine a se stessa, ci impone quindi di ragionare su questi indirizzi di fondo, che valsero allora ma che si ripropongono, in un’inedita attualità, nel presente. Poiché alla radice del nostro presente c’è la necessità di rifondare il patto costituzionale e repubblicano. Altrimenti i molti spazi lasciati aperti, ovvero i varchi della ragione, saranno occupati da coloro che occultano, da sempre, i loro calcoli di interesse dietro il rimando a repellenti retoriche che chiedono, come un dio insaziabile, «eroismo», «sacrificio» e «martirio» proprio per giustificare la permanete inettitudine collettiva. Degli altri, non di se stessi. L’esperienza storica della Resistenza raccolse, dello scibile e del possibile umano, la possibilità di restituire all’umanità ciò che gli apparteneva. Non certo quanto altrimenti venne detto da coloro che, impropriamente, ne beneficiarono senza avere diritto, richiamando un’unità fittizia tra opposti.

RESISTENZA, infatti, non è mai «pacificazione» bensì autoaffermazione. Fu quindi una riappropriazione di se stessi, che invece nulla ha a che fare con la nozione di omologazione, di condivisione, di parificazione. Ricordiamoci: la radice di «partigiano» non è mai unione bensì divisione. Non sulla scorta di odi e avversioni incolmabili bensì sulla base della costruzione di un’identità che sapeva distinguere tra ciò che ha motivo di esistere (nonché resistere) e quanto, invece, va abbandonato a sé poiché mera finzione.
Detto questo, nell’età che stiamo vivendo, sussiste un altro problema di fondo, ossia quello della confusione. È confusione quanto non riesce a stabilire dei legittimi confini tra quanto è lecito e ciò che – invece – è un letterale autoinganno. Nelle settimane trascorse, un gruppo giovanile di un partito del centro-sinistra, ha diffuso, come manifesto deferente nei confronti della lotta di Liberazione, un’immagine (con il logo che rimanda a una canzone di Pierangelo Bertoli, «Eppure soffia») che, nelle intenzioni, dovrebbe richiamare il partigianato. Tuttavia, e non si tratta di un errore occasionale, quanto è raffigurato è un documento Luce, prodotto della propaganda della Repubblica sociale italiana (del 16 ottobre 1944), dove alcuni militi delle infami brigate nere, con il compiacente ministro della propaganda di Salò, Ferdinando Mezzasoma ben visibile, si accomiatano dai loro familiari per recarsi a compiere il loro triste compito. Di anti-italiani. Non c’è bisogno di avere una memoria storica particolarmente corposa per cogliere l’equivoco: la postura, gli abiti e la stessa situazione dei soggetti raffigurati poco o nulla corrispondono all’ordinaria iconografia della Resistenza, peraltro all’epoca assai scarna, per nulla celebrativa nel mentre la guerra era in atto, sia per i vincoli materiali in sé, sia per il fatto che fare circolare fotografie (con volti identificabili), all’epoca implicava il concreto rischio di autodenunciarsi.

L’IMMAGINARIO fotografico della Resistenza è stato costruito, per buona parte, dopo la Liberazione stessa, quando il partigianato poté emergere dalla clandestinità nella quale era stato costretto a consegnarsi e ad operare. E come ogni immaginario risponde a linee retoriche al cui centro c’è l’apologia del proprio impegno. Cosa deriva da questo riscontro? Che un altro limite, non meno potente della retorica roboante, tanto vuota quanto falsamente celebrativa, è la storia come pura intercambiabilità, fatta non di mattoncini Lego, assolutamente intercambiabili e, come tali, del tutto privi di qualsiasi storicità. Si è soggetti dell’azione del tempo corrente, quindi del ritorno alla politica, se si saprà recuperare il senso del conflitto. Non di quello distruttivo ma di quanto distrugge la falsificazione delle impossibili omologazioni, dietro le quali ogni potere totalitario celebra se stesso, ottundendo il diritto alla giustizia, e quindi alla differenza, che qualsivoglia creatura umana reclama, per sé e per i suoi simili. Poiché l’indice di umano è pluralismo, non altro.