Le città industriali e minerarie delle Midlans, sono il vero protagonista di Iron Towns – Città di ferro, il nuovo romanzo di Anthony Cartwright (66thand2nd, traduzione di Riccardo Duranti, pp. 296, euro 18) che lo scrittore britannico presenterà il 10 settembre al Festivaletteratura di Mantova (ore 10,15, chiesa di Santa Paola). La memoria ferita di luoghi che la crisi della produzione industriale ha reso, negli ultimi decenni, quasi dei sopravvissuti a se stessi prende forma attraverso un pugno di personaggi che cercano di tirare avanti, nel tentativo di dare un nuovo senso alle loro esistenze fragili, impaurite, spesso sconfitte. Il tutto mediato dalla spessa metafora del calcio, cuore e specchio di un’identità di classe, ma anche di un lessico dell’esistente, perduto e che si stenta a rimpiazzare con altro.
Liam, Dee Dee, Mark, Goldie, Alina e i loro parenti e amici si muovono tra strade deserte e impolverate e colline scavate dall’acciaio e dal carbone alla ricerca di un senso che stentano a ritrovare ma che forse è racchiuso nei boati della piccola folla che ancora si riunisce per assistere alle partite dell’Iron Towns Football Club in uno stadio sgualcito e in parte abbandonato che fa, non a caso, da sfondo ad alcune delle pagine più drammatiche del romanzo. Un libro che, dopo Heartland e un Giorno perduto (usciti sempre per 66thand2nd), conferma la capacità di Anthony Cartwright di indagare il volto dolente e incerto della Gran Bretagna contemporanea.

«Iron Towns» compone un’epica i cui eroi sono gli operai e i calciatori, legati da un vincolo di identità sociale e di appartenenza comunitaria. Solo che come dice Liam, che sognava di diventare un campione, «gli operai non ci sono più e noi e loro era il principio secondo il quale funzionava anche il calcio». Questo libro è un omaggio a un mondo perduto?

Senza dubbio. In Gran Bretagna, l’identità di classe e i vincoli comunitari che hanno caratterizzato a lungo il mondo operaio sono stati progressivamente erosi e rimpiazzati da una cultura individualista e consumista, una dimensione sempre più atomizzata dell’esistenza. E il calcio ha rispecchiato questo profondo cambiamento. Ciò che ho però scoperto attraverso la scrittura è che forse questo mondo perduto riesce a dare paradossalmente ancora qualche segno di vita.
Proprio attraverso il personaggio di Liam – che sentiva di essere predestinato per un futuro da grande campione e che invece a quarant’anni gioca ancora nella squadra operaia della cittadina in cui è nato, la stessa in cui aveva debuttato da ragazzino, l’Iron Towns Football Club – mi sono accorto che forse della cultura della working-class resta ancora più di quanto saremmo disposti ad ammettere o a riconoscere.

Lei descrive il declino dei centri industriali, le «città di ferro», avvenuto nell’arco di quarant’anni, come «una catastrofe al rallentatore». E si chiede se forse, un giorno, «nascerà il mito delle grandi città in rovina», quasi una meta turistica. Per il momento qual è la situazione?
Le divisioni che caratterizzano la società britannica sono sempre più profonde: si tratta di una realtà divenuta, attraverso i decenni, più ingiusta e segnata dalle disparità sociali. Al centro di tutto il mio lavoro c’è il modo in cui il crollo del modello produttivo industriale iniziato nei primi anni Ottanta durante l’epoca della Thatcher, e soprattutto delle industrie del carbone e dell’acciaio e del loro indotto, ha avuto ripercussioni sulle vicende e la vita stessa di molte città del paese, compresa Dudley, da cui provengo. E ha cambiato l’orizzonte e le aspettative dei loro abitanti. Perciò l’idea che in futuro si possano visitare queste «città perdute», in cui generazioni di persone sono nate e cresciute, come ci si recasse in un museo credo aiuti a rendere le proporzioni reali della crisi in cui siamo tutt’ora immersi. Un modo per descrivere lo stato di salute attuale della Gran Bretagna.

Una delle protagoniste, Dee Dee, si riconosce nei versi di Dylan Thomas che dicono «dopo la prima morte non ce n’è un’altra». È questo il modo in cui gli abitanti del luogo guardano alla loro storia?
Per Dee Dee quei versi hanno un significato personale, le ricordano le persone che ha perduto, gli amici morti, gli affetti su cui non può più contare e la cui memoria riecheggia nel romanzo. Per questo ama Dylan Thomas e anche un altro poeta malinconico come Laurie Lee. Ma evidentemente tutto ciò ha anche un significato più vasto: nelle città di ferro tutte le cadute e i disastri, anche quelli più intimi e personali sembrano rimandare in modo inesorabile al collasso dell’industria, a quella prima morte che ha steso il suo velo scuro sugli uomini e le cose.

Nel libro si cita un elenco di bizzarri progetti di riqualificazione delle ex ferriere Greenfield che vanno dai parchi a tema ispirati a Tolkien fino a una prigione privata. In realtà cosa ha preso il posto delle fabbriche?
Quella lista è più realistica di quanto potrebbe sembrare. Ho solo ampliato un po’ con la fantasia ciò che è stato effettivamente proposto per rimpiazzare una società industriale con una basata sul consumo, spesso in senso letterale. Io sono cresciuto a tre miglia da un’enorme acciaieria, chiamata Round Oak, che è stata demolita a metà degli anni Ottanta e sostituita da un altrettanto enorme centro commerciale che ha subito ucciso tutti i piccoli negozi della zona. Perlopiù sono state costruite della grandi cattedrali del consumo, ma ci sono stati anche diversi tentativi di creare attrazioni «ricreative» o «turistiche» sui vecchi siti industriali. Il riferimento a Tolkien è in parte uno scherzo, per il modo in cui ce lo siamo fatti scippare dalla Nuova Zelanda, dove hanno girato i film tratti dalla sua saga. Infatti, Tolkien era cresciuto non lontano da qui, a Birmingham, e gran parte dei paesaggi della Terra di Mezzo sono ispirati a quelli delle Midlands e del Galles. È dalla zona mineraria della Black Country che ha tratto l’idea per la Terra Oscura di Mordor.

Lei scrive che un tempo i campioni del calcio nascevano in famiglie proletarie, «ascoltando il fragore dei martelli». Cosa resta oggi di questo immaginario di classe?
In realtà, per quanto riguarda le biografie dei calciatori, credo che la loro condizione di partenza sia simile a quella del passato. L’attaccante dell’Arsenal Alexis Sanchez è venerato dai tifosi sia per come gioca sia perché sostiene i compagni. Viene da una povera città mineraria del Cile e penso che giochi così anche per il suo background. Allo stesso modo, l’eroe del Leicester Jamie Vardy ha debuttato nel Stocksbridge Park Steels, una squadra dello Yorkshire che, fin dal nome, rimanda alle proprie tradizioni operaie.
Ciò che è mutato è il modo in cui i club più importanti hanno cercato di separarsi dalle loro radici nella working class e di perseguire unicamente il denaro. Si è speculato sul legame affettivo tra tifosi e squadre per cercare di sostituirlo con l’appeal commerciale. Forse perché in questo legame si esprimeva anche un senso di solidarietà e di identità sociale che spaventa il potere.

Alina raccoglie foto e video della zona per stendere un ideale filo d’Arianna tra luoghi che appaiono ormai come rovine. Cerca un senso nel labirinto della propria identità: un percorso che assomiglia a quello della sua scrittura?
Per molti versi, sì. Indago nel labirinto della recente storia britannica seguendo un filo invisibile che lega uomini e luoghi. Nei miei romanzi, i personaggi cercano la loro strada attraverso le rovine di una cultura industriale, e imperiale, ormai defunta e inseguono il sogno di un futuro migliore. Qualcosa che è iscritto nella memoria delle generazioni che li hanno preceduti e qualcosa che è invece ancora da inventare.

Liam ha il corpo pieno di tatuaggi dei calciatori, ma, alla fine del libro chiede al suo amico tatuatore di completare l’opera disegnando i tifosi, perché, spiega, i campioni «senza la folla non sono nessuno, il calcio è lo sport del popolo». Solo un’evocazione «romantica»?
Qualcosa di più. All’inizio del romanzo, si sente isolato, alienato, è un individuo solo, sdraiato su un letto anonimo di un albergo. Nel corso della storia, però, si riconcilierà almeno in parte con i compagni di squadra, il suo club, la sua città. Fino a vedere i giocatori e i tifosi come indivisibili, parte di una stessa dimensione.
Certo, c’è un po’ di romanticismo, ma anche qualcosa di concreto. Il calcio è lo sport della working-class, il prodotto di una vita comunitaria ricca e solidale. Nella scelta di Liam c’è la volontà di resistere e di rinascere degli abitanti delle città di ferro.