Quando lo abbiamo incontrato al Festival di Cannes, poco dopo la proiezione di Parasite, non immaginava ancora che avrebbe vinto la Palma d’oro e l’Oscar al miglior film, nonostante il film avesse acceso un assoluto entusiasmo sulla Croisette imponendo il suo nome anche tra chi lo conosceva appena. Non che Bong Joon-ho, classe 1969, esordio con Barking Dogs fosse fino a quel momento uno sconosciuto: autore di film fortemente politici e formalmente pieni di invenzioni, che rivitalizzano i generi nel dialogo con la realtà – da The Host a Snowpiercer – è considerato uno dei registi di punta nel cinema contemporaneo, e non solo in Corea del Sud, dove è nato e lavora. Okja, il film precedente, fiaba nerissima sul capitalismo passato e presente targato Netflix, era stato anch’esso in concorso a Cannes due anni fa scatenando le furiose polemiche che hanno portato il festival alla decisione di escludere il colosso dello streaming dalla competizione – Netflix infatti non lo ha mai fatto uscire in sala purtroppo.

Più che dei premi, durante il nostro incontro nello spazio bianco di fronte al mare, Bong aveva parlato di Gianni Morandi. Sì proprio l’eterno ragazzo della canzonetta italiana, che sembra sia famosissimo in Corea – lo canteranno al karaoke? – di cui utilizza in Parasite In ginocchio da te: che fa ora, aveva chiesto, è ancora famoso? Lo avevo tranquillizzato. Sì, è ancora famoso, canta sempre e fa pure l’attore.
Qualche giorno dopo Bong è salito sul palco a ritirare la Palma, verdetto unanime ha detto contento il presidente della giuria, Alejandro Inarritu – e altro non poteva essere per questo magnifico film «antropofago» in cui la vita e i corpi declinano la lotta di classe, tracciano al verticalità globale dei nuovi capitalismi, mappano la società mischiando con impertinenza commedia a horror esistenziale, risata e amarezza, politica e biologia. Lo spazio in cui abitano le due famiglie protagoniste, quella ricca e quella povera, la prima nei quartieri alti, la seconda nei sottoscala invasi dalle fogne a ogni pioggia, determina la differenza tra pulito e sporco. La storia seguirà il movimento di uno verso l’altro, senza più alcuna possibilità di mascheramenti: il povero irrompe negli ambienti dei ricchi, l’odore – quel puzzo che infastidisce il padrone e che si porta dietro non mente appunto. «La coabitazione tra persone di classi diverse può essere difficile. In un mondo che ha svuotato di senso l’idea delle relazioni umane basate sulla coesistenza, ogni classe sociale diviene parassitaria per le altre» dice Bong Joon-ho. Parasite, vincitore di quattro premi Oscar, è di nuovo in sala dal 6 febbraio.

In «Parasite» il rapporto tra le classi organizza ogni aspetto, anche nei gesti più banali, la vita quotidiana. Anche l’architettura della città risponde a questa logica. Da cosa sei partito?
La coabitazione tra ricchi e poveri è un dato di fatto nel mondo attuale, e diventa sempre più evidente che le politiche sociali e le economie globali spingono perché la cesura continui a crescere. Si prefigura un modello di società con pochi ricchi da una parte e molti poveri dall’altra nella quale il concetto novecentesco di «classe» è superato dalla ricchezza in sé. Nel film provo a mostrare le difficoltà che esistono in questa «coabitazione». Per fare un esempio: in Francia è esploso il movimento dei Gilets jaunes, anche in Corea abbiamo lo stesso tipo di tensioni. Nessuno sa bene cosa accadrà, non ci aspettiamo un messia né soluzioni miracolose, è una lotta che si combatte giorno dopo giorno. Avevo in mente questa idea già mentre lavoravo a Snowpiercer, il tema affrontato è abbastanza simile. Ho immaginato visivamente questo dualismo, a cominciare proprio dallo spazio urbano in cui i personaggi vivono, che peraltro non è molto distante dalla realtà, direi invece che è piuttosto realistico. È un po’ il mio modo di procedere, mi piace unire più suggestioni insieme, lavorare a una cosa mi porta a concentrarmi su qualcos’altro, del resto la mia fonte di ispirazione più importante è la realtà che ho intorno, quanto osservo ogni giorno, i diversi microcosmi che appaiono alla mia attenzione. La differenza di classe è una di queste: la notiamo ovunque, in metropolitana, all’aeroporto: quante volte ci siamo detti «quel tipo avrà un sacco di soldi». O il contrario. Siamo immersi nel capitalismo, come artista credo che sia fondamentale occuparsene.

Quali sono stati gli elementi chiave per tratteggiare le caratteristiche delle due famiglie?
I ricchi dovevano essere un po’ raffinati, quella tipologia che non ostenta la propria ricchezza in modo «pacchiano»: hanno una casa progettata da un archistar, amano l’arte, il loro modo di presentarsi è appunto: «Siamo ricchi ma anche colti». Ciò che però vogliono davvero – e lo rivendicano categoricamente – è difendere il proprio bel mondo da ogni incursione esterna. C’è una linea – come dice il marito ricco – oltre la quale gli altri, i servi che pure trattano amichevolmente – almeno in apparenza – non devono oltrepassare mai. E se entrano in quello spazio è solo per il lavoro, sono autisti, domestiche… Oltre a questo non è permesso, lo difendono con ogni mezzo. I poveri abitano nelle zone più devastate della città, dove ci sono molti edifici in rovina, per questo abbiamo lavorato a lungo con gli scenografi, volevo che l’intero quartiere apparisse nello stesso modo, abbiamo fatto e distrutto case, provato molte volte le inondazioni però ci tenevo che quel decor non suonasse artefatto. La città a cui faccio riferimento è Seul, anche se il film è girato in studio, e penso che questa geografia valga ovunque – ma è vero, ci sono dettagli molto coreani.I poveri forse erano i nostri vicini, i nostri amici e colleghi caduti a un certo punto nel precipizio.

Tra i poveri non c’è più solidarietà.
È triste dirlo ma oggi per lo più funziona così, ciascuno cerca di trarre vantaggio per sé dalle situazioni senza preoccuparsi di altri nella stessa condizione. Anche questa è una vittoria del capitalismo.

I tuoi film sono politici rileggendo i generi…
Mi faccio trasportare dalla storia, è lei che mi guida, che mi orienta verso una scelta o l’altra. Non penso mai di utilizzare un genere o l’altro a priori, ma so che mi piace mischiare le cose, le mie passioni cinematografiche, gli insegnamenti che ho ricevuto guardando i film.