Come raccontare oggi ciò che resta della lotta di classe? Domanda impegnativa che Stéphane Brizé prova a mettere in scena adottando uno stile fisico e restando attaccato alla pelle e ai corpi dei suoi protagonisti. In fondo questa scelta è anche la cifra formale di tutto il film che per il resto si regge sulla registrazione della parola come arena ultima dove mettere in campo un conflitto il cui esito è chiaro sin dalle prime battute.

BRIZÉ – in maniera piuttosto brutale – ricorre a un’idea quasi didascalica: le richieste sindacali diventano l’oggetto di una conversazione che vede contrapposti due fronti. Come a dare corpo a una dialettica che forse non è proprio così speculare e binaria come la forma del film suggerisce. Affidandosi al corpo di Vincent Lindon, è come se Brizé rispolverasse un’idea molto romantica del conflitto di classe; uno scontro molto maschile, tutto di corpo, dove la giustezza delle idee passa necessariamente attraverso la giustezza dei corpi. Bisogna poi certo dare atto a Brizé del sapere montare e gestire la tensione verbale con grande abilità, ma in fondo siamo sempre nella tradizione del cinema d’autore transalpino «urlato». Il limite evidente di In guerra è di immaginare il «cinema politico» come un cinema teatrale; le idee bisogna enunciarle e sottolinearle; anche oltre il dovuto.

LINDON abita il film con grande convinzione, al punto che quella che dovrebbe essere una lotta collettiva finisce per essere messa in scena come il percorso addirittura cristologico di un santo sindacalista e operaio che non ce la fa a togliere i peccati (della liberalizzazione) dal mondo. È come se la messa in scena della parola, piuttosto che finire nell’arena delle idee, restasse intrappolata sulle assi di un palcoscenico ideale. E se da un lato l’indignazione pare sincera, non si può non pensare a Daney quando suggeriva che bisogna diffidare di chi reinventa sinceramente i luoghi comuni.

E CHE «IN GUERRA» sia in fondo la storia del corpo virtuosistico di un attore lo evidenzia il finale, che ne manifesta compiutamente la visione politica e i limiti formali. Si comprende bene il trasporto che ha dato corpo al film, ma resta il sospetto di una performance virtuosistica un po’ fine a se stessa, che paradossalmente resta distante da quello che è l’oggetto del suo racconto. Politicamente ci sembra un risultato dubbio; proprio come il film in fondo, che si vorrebbe amare di più, non riuscendoci.