Ad aprile la nomina dell’Arabia saudita a membro della Commissione Onu sullo status delle donne (Uncsw) aveva fatto accapponare la pelle a molti. UN Watch, agenzia che monitora l’operato delle Nazioni unite, aveva trovato il paragone perfetto: «È come mettere un piromane a capo dei pompieri». Nel 2015 Riyadh si era aggiudicata la presidenza del Consiglio dei diritti dell’uomo dell’Onu: altro brivido.

Perché se c’è un paese che meglio di altri incarna l’ultraconservatorismo patriarcale, il diniego dei diritti e le libertà basilari e la politica di potenza è l’Arabia saudita. Nei confronti di ogni minoranza o gruppo considerato pericoloso per la tenuta della petromonarchia, che si tratti di immigrati, sciiti, oppositori politici o donne.

UNA REALTÀ DISTOPICA, che prova a tenere insieme modernità estrema e tecnologie avanzate con repressione e conservatorismo, attaccamento ai valori consumistici occidentali con negazione dei diritti civili, sociali e politici.

La situazione delle donne ne è specchio fedele: cittadine di serie B, impossibilitate a compiere scelte libere, ora optano per gli strumenti più moderni per far sentire la propria voce.

Da anni si moltiplicano le campagne sui social network per rivendicare uguaglianza politica, economica e sociale: grazie alla diffusione di internet (il 64,7% dei sauditi ha accesso alla rete), hanno lanciato e portato avanti campagne che sfidano l’autorità ma anche la società stessa.

FOTO E VIDEO DI DONNE che guidano, danzano, giocano a basket, cantano, vanno in bicicletta e in skate. Gli hashtag sono ben precisi. Come #IamMyOwnGuardian, sono io il mio guardiano, contro il sistema del guardiano che obbliga la donna a sottostare al volere di un uomo per ogni attività (studiare, lavorare, viaggiare, uscire in strada, sposarsi e divorziare, ma anche uscire di prigione), una campagna che ha raccolta quasi 15mila firme ed è stata inviata a re Salman.

#StopeEnslavingSaudiWomen è stato invece segnalato da così tanti utenti che Twitter – il cui secondo azionista con il 5,2% delle quote è il principe saudita al-Waleed al Bin Talab Bin Abdulaziz al Saud – ha sospeso gli account delle organizzazione di donne promotrici.

O come l’altro noto hashtag #BecauseIamSaudiWomanICannot, poiché sono una donna saudita non posso, e a seguire la lista di quello che ad una donna è vietato del tutto o permesso solo con il via libera del guardiano, che sia il padre, il marito o il fratello.

Viaggiare all’estero o nel proprio paese, aprire un conto corrente, lasciare il marito, scegliere la facoltà universitaria, ottenere un documento di identità, accedere alle cure mediche.

UNA LISTA LUNGA che si è accorciata solo di un gradino un anno e mezzo fa quando la petromonarchia ha riconosciuto alle donne il diritto di voto attivo e passivo. Una svolta storica ma a metà, ostacolata dai limiti posti a chi voleva esercitare il diritto appena acquisito: seggi separati, obbligo ad essere accompagnati da un uomo (elemento che lasciava la scelta definitiva alla liberalità della famiglia), impossibilità per le candidate di mostrare il proprio volto nei poster elettorali e di tenere comizi pubblici.

Alla fine sono state 978 le candidate alle elezioni di dicembre 2015 e 130mila le elettrici effettive su un milione e mezzo di iscritti alle liste (un decimo della popolazione femminile).

Un passo in avanti, piccolissimo, in un paese che esalta la supremazia maschile spacciandola per caposaldo dell’Islam, interpretazione fallace (nel Corano non se ne parla affatto). E la disuguaglianza è abissale: le donne sono escluse dalla vita economica e politica.

Seppur altamente educate (il 91,84% delle saudite sopra 18 anni e il 99,31% di quelle sotto è alfabetizzata e oltre la metà degli iscritti all’università è donna) il tasso di occupazione è minimo: solo il 16% delle donne in Arabia saudita lavora, dato da rivedere al ribasso se si tolgono le migranti. Il tasso precipita, dice l’Organizzazione internazionale del Lavoro, al 6,1%.

CITTADINE DI SERIE B per legge, immeritevoli di autodeterminazione, soggetti capaci solo di prendersi cura della casa.

Una discriminazione strutturale che ha plasmato la società – per la maggior parte favorevole al mantenimento delle disuguaglianze – e che si accompagna alla segregazione fisica: alle donne è vietato frequentare gli spazi pubblici degli uomini, divieto visibile nella separazione su mezzi di trasporto, scuole, uffici pubblici.

Fece scalpore nel 2012 la decisione di re Salman di chiudere le donne del Consiglio della Shura, dove finalmente erano state ammesse dopo tante lotte, in una stanza separata da cui si collegavano con l’assemblea con un microfono. Distanza fisica sufficiente ad annullarne la capacità di intervento