Nel 2020, le sale cinematografiche, i teatri e i musei sono stati sacrificati per ridurre il numero di contagi. Si tratta di misure suggerite dalla scienza ma imposte dalla politica. In alcuni paesi, per esempio, si è deciso di lasciare aperti i luoghi di culto e di chiudere i luoghi di spettacolo. Questa decisione non è scientifica ma politica.

PER LA PRIMA VOLTA da molti anni a questa parte, il cinema ha ritrovato la sua ancella, la censura. La censura fa parte integrante della storia del cinema. Non in quanto arte popolare e di massa. Ma in quanto arte popolare e di massa che diventa altro da sé. In quanto arte che – per esprimersi in termini deleuziani – oltrepassa il proprio territorio. Quando il cinema esce dalle fiere e dai teatri popolari per entrare nei Cinema palace costruiti per il pubblico borghese, c’è un primo contraccolpo della censura, segnatamente negli Stati Uniti. Quando il cinema diventa sonoro, questa trasformazione è di nuovo accompagnata da un tentativo di porre dei limiti normativi ai temi e ai modi di rappresentazione. Se il cinema fosse rimasto nelle fiere, come semplice attrazione, c’è da pensare che non sarebbe stato toccato dalla censura.
Nel 2020, non tutti i paesi sono stati toccati dal lockdown culturale nella stessa maniera. È interessante notare che uno dei paesi in cui le sale sono state più penalizzate è proprio la Francia, paese natale del cinema, della sua religione, la cinefilia, e della sua chiesa, la Cinémathèque. Il cinema in Francia è cosa sacra o, perlomeno, lo era. Ora, anche in questo caso la censura appare durante una fase di deterritorializzazione. Da diversi anni il cinema ha invaso altri schermi oltre a quelli delle sale. I modi di produzione dominanti sono oramai legati allo streaming ben più che alla sala. La sala è un territorio residuale, sempre più inessenziale economicamente ma ancora centrale simbolicamente.

La pandemia ha dato al potere politico la possibilità di dissacrare definitivamente la sala in quanto luogo simbolico dell’essenza del cinema. Questo processo ha richiesto un livello di brutalità adeguato al prestigio che la settima arte rivestiva nell’immaginario collettivo. A chi lavora nel cinema è stato detto: eravate i primi, sarete gli ultimi. Colmo della umiliazione: valete meno dei luoghi di culto. Fine del culto.
Non è il contenuto del cinema ad essere attaccato. È il cinema (il teatro, il museo) in quanto luogo. Non ci si deve più riunire pubblicamente per l’arte. Ci si può riunire per il commercio. O per il culto. Ma non per l’arte. L’arte va consumata a casa, in famiglia, davanti ad uno schermo. È un grande Farenheit 451 che ha per oggetto non il contenuto del consumo ma il modo di consumo. La censura non colpisce un’ambizione di deterritorializzazione. Anzi, provoca la definitiva deterritorializzazione del cinema che da oggi sarà essere definitivamente pensato come un cosa privata.

ALLA BRUTALITÀ di questa censura politica ci si è opposti per il momento in maniera assai incoerente. Molti attori del settore preferiscono non vedere la natura del processo in atto. Le associazioni dei programmatori continuano ad agire con un riflesso sindacale, cercando di accompagnare dei processi decisi dalla politica. La pandemia conforta l’illusione che le misure prese rispondano ad un’eccezione e che, finita l’urgenza, si tornerà alla normalità. Essi chiedono alla politica di mitigare questo momento difficile con degli aiuti mirati. Altri vedono invece nella pandemia un acceleratore di processi già in atto da anni e che hanno vocazione a cambiare lo stato di cose per sempre. Per questi ultimi, che nel settore dello spettacolo sono una minoranza, il problema non è quello di chiedere aiuto al potere (ovvero a Macron) ma di combatterlo e di aprire le sale a chi si oppone al neoliberismo nelle strade (ovvero i Gilets Jaunes). Per loro, il problema non è più quello di proiettare i film che il circuito ordinario (nazionale e internazionale) distribuisce, ma sovvertire il processo produttivo per mettere le sale a disposizione delle lotte locali e delle immagini girate durante le manifestazioni (e che la legge cerca di rendere illegali).

TRA QUESTI due mondi, così distanti tra loro, e in cui l’antica separazione delle due sinistre trova una moderna incarnazione, c’è un terzo territorio. Ne fanno parte gli organizzatori delle proiezioni selvagge di questi ultimi mesi: a Marsiglia, a La Roche sur Yon, a Parigi, a Caen, alcuni programmatori (più o meno anonimi) hanno proiettato alcuni film sulle pareti di cinema, chiese, semplici case o palazzi. Difficile immaginare che questi eventi effimeri diventino delle pratiche diffuse, ma sono il segno di una volontà di costruire ponti tra tutti quelli che, in strada e nelle sale, rifiutano di arrendersi all’andamento spontaneo delle cose.