Nel 1964, l’anno del boom delle nascite, Gigliola Cinquetti vinceva il Festival di Sanremo con una canzone che ancora risentiva del clima pre-rivoluzione sessuale. Non ho l’età (per amarti), diceva infatti il titolo. Oggi, mentre i baby boomers sono divenuti degli adulti maturi prossimi alla pensione o alla cosiddetta terza età, quel ritornello viene ripreso per parlare di invecchiamento nel volume scritto da Giangiacomo Schiavi e Carlo Vergani (Non ho l’età. Storia, scienza e speranze della nuova longevità, Centauria, pp. 137, euro 13,90).

I DUE AUTORI – giornalista il primo, docente di geriatria il secondo – affrontano un tema (sociale, demografico, biomedico, economico, assistenziale, culturale) enorme e complesso che sta cambiando pelle alla società italiana. In cui, si potrebbe dire, non abbiamo più l’età per «sentirci» vecchi (come lo si era o lo si intendeva fino a non molto tempo fa).

Abbiamo sempre più respinto in là il temibile incontro con Thánatos. Nelle ultime quattro generazioni, in Italia, la vita media si è allungata di circa tre mesi all’anno. Uno «sconto» ragguardevole, pari al 25% della vita. L’avanguardia di questo inedito invecchiamento longevo riguarda la crescita velocissima dei centenari che oggi sono 19 mila, mentre nel 1951 erano appena 165 e alla metà del secolo potrebbero essere ben 170 mila. Sempre più anziani (per effetto del lontano baby boom) ma anche sempre più longevi. Fra trent’anni – prevede l’Istat – gli anziani saranno quasi un terzo della popolazione e i grandi anziani (sopra gli 85 anni) saranno il 6,1% (oggi sono il 2,7).

Si dice che non basta aggiungere anni alla vita, occorre anche aggiungere vita agli anni. In due modi. Il primo è quello di ritardare l’insorgere delle patologie e di «comprimerle» nella fase finale della vita. È la tesi della compression of morbidity di Fries che ipotizza che, a fronte di un progressivo allungamento dell’aspettativa di vita (compressione della mortalità), l’insorgenza della malattia e della disabilità possa ugualmente venire rimandata.

DI CONSEGUENZA, l’invecchiamento comporterebbe non un aumento, ma una riduzione, almeno relativa, del numero di anni trascorsi in cattive condizioni di salute e probabilmente di dipendenza fisica. In altri termini, alla compressione della mortalità (transizione demografica) si assocerebbe la compressione della morbilità e della disabilità, con un aumento, quindi, della durata della vita attiva ed della sua qualità complessiva (transizione epidemiologica).

Gioca in tutto questo l’affinamento scientifico della capacità diagnostica e terapeutica, l’organizzazione sanitaria più efficiente, una cultura della salute che ricorre maggiormente alla prevenzione ed ai controlli, ma anche nuovi anziani che provengono da ambienti, lavori e stili di vita più sani.

L’altra condizione che aggiunge vita agli anni è l’invecchiamento attivo o «giovanilizzazione» degli anziani. È un processo che desenilizza i comportamenti, gli stili di vita e le percezioni stesse degli anziani facendo sì che la cosiddetta «terza età» sia ormai una sorta di prolungamento della condizione di adulto mentre tendenzialmente la «vera» vecchiaia si posticipa a una quarta età che si pone intorno alla metà dell’ottavo decennio della vita. Per cui, per esempio, se quel Non ho l’età per amarti una volta si applicava pudicamente al mondo degli anziani, oggi i segmenti maturi della popolazione non sono più i recettori passivi e ritardati di tendenze decise altrove, ma sempre più diventano essi stessi dei trendsetter, protagonisti attivi se non anticipatori del cambiamento sociale.

È questa la «nuova longevità» che sottotitola il libro di Schiavi e Vergani. Che non nascondono però le grandi complicanze trascinate dall’invecchiamento longevo. Come le polipatologie degli anziani, su cui gravano i quattro «giganti della geriatria»: delirio o stato confusionale (più di un milione sono i pazienti con demenza), incontinenza, cadute, depressione. Mentre crescente appare la fragilità delle famiglie su cui grava un pesante carico assistenziale (sorrette da più di 1,5 milioni di badanti).

OCCORRE ANCHE un approccio nuovo della medicina e del medico, più basata sull’arte terapeutica del comprendere e del narrare, mentre notoriamente gli ospedali non appaiono luoghi «amichevoli» per gli anziani. E non bisogna dimenticare, come scrivono gli autori, che «si vive e si muore per censo». Ben 11 milioni di italiani nel 2016 hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie per difficoltà economiche.

Sulla salute il reddito di un paziente può incidere più del suo genotipo – insomma la classe incide sull’invecchiamento – mentre non va ignorato che «la politica non è altro che la medicina su larga scala». La «società dei cento anni» che si sta profilando per la fine di questo secolo maturerà o esaspererà le tendenze qui sintetizzate, ponendo opportunità e problemi inediti – da affrontare e gestire fin da subito. Meglio sarebbe stato già da ieri.