Con 85 vittime e 518 nuovi casi, la giornata di ieri non ha tranquillizzato gli esperti. Preoccupa il numero dei decessi, anche se è in linea con quello dei giorni precedenti, e ritocca il conto totale a 33.774. Ma soprattutto il numero dei nuovi contagi segnala che il virus non è affatto «clinicamente morto», come affermato dall’anestesista Alberto Zangrillo pochi giorni fa. L’aumento dei casi riguarda soprattutto la Lombardia, ormai l’unica regione in cui il Covid-19 non appare sotto controllo. Nella regione sono stati individuati 402 dei 518 nuovi casi, cioè circa l’80%. Il giorno prima erano stati 84, cioè 4 volte di meno.

È un incremento mai visto in nessuna regione, nemmeno nella fase iniziale dell’epidemia. Ma non significa che il virus stia improvvisamente accelerando. Il numero di casi accertati, infatti, dipende in modo sostanziale dal numero di tamponi effettuati. Rispetto ai 3.410 test effettuati giovedì, nella giornata di ieri se ne sono fatti 19.389, cioè oltre 5 volte tanto. Il rapporto tra test effettuati e casi registrati rimane lo stesso, circa 2 casi ogni 100 tamponi. A parte Liguria e Piemonte, nelle altre regioni questo rapporto è di 0,3 casi ogni 100 tamponi. In Veneto, dove i tamponi si fanno in modo più sistematico, nell’ultima settimana si sono fatti 68 mila tamponi per rintracciare 40 nuovi casi. In Lombardia, con un numero simile di tamponi (73 mila) sono stati individuati 1.391 nuovi casi positivi, 30 volte di più.

Da un lato è una buona notizia, perché significa che in Lombardia il virus non ha ripreso a diffondersi con la velocità dei primi giorni. D’altro canto, il rapporto tra casi e tamponi dimostra che con una capacità diagnostica più elevata il numero di casi rilevati crescerebbe in proporzione.

Soprattutto nella provincia di Milano abbondano ancora le segnalazioni di enormi ritardi nell’attività diagnostica. Simona Comero, 37 anni di Melzo, racconta su Facebook di aver ricevuto solo il 1 giugno il risultato di un tampone richiesto il 4 marzo e solo dopo l’interessamento dei media. Sempre sui social viaggia il caso di Niccolò Tramontana, a cui l’Ats di Milano aveva annunciato un tampone il 19 marzo, ha dovuto aspettare 40 giorni e solo grazie all’intervento di un legale. Eppure l’assessore al welfare Attilio Gallera già a inizio maggio prometteva tamponi nel giro di 24 o 48 ore.

Se i casi positivi in Lombardia sono davvero così numerosi, è naturale chiedersi se nelle riaperture il caso della Lombardia (e forse di tutto il nord-ovest) debba essere considerato a parte, come proposto da molti governatori. Il sospetto è che avesse ragione Nino Cartabellotta della fondazione Gimbe, che aveva accusato la regione Lombardia di «magheggi» per aggiustare i dati e non frenare le riaperture. A giudicare l’operato delle regioni sarà il rapporto settimanale elaborato da ministero della Salute e Istituto superiore di sanità, previsto per giovedì e slittato a oggi.

Nel dubbio, per circolare in Lombardia è bene munirsi di mascherina. È quanto consiglia da ieri anche l’Oms che ha nuovamente aggiornato le sue raccomandazioni sull’uso dei dispositivi di protezione. Nell’ultima versione, l’Oms prescrive agli ultrasessantenni di indossare mascherine chirurgiche anche nella vita quotidiana nelle zone in cui il virus circola ancora e laddove il distanziamento sociale non sia possibile. Il consiglio vale anche per i più giovani, che però possono ricorrere a mascherine in tessuto. In precedenza, le linee guida dell’Oms non raccomandavano l’uso delle mascherine al di fuori delle strutture sanitarie. È possibile che molte regioni debbano ora rivedere le proprie ordinanze.