Ho incontrato per l’ultima volta Arthur C. Danto lo scorso agosto nella sua casa newyorkese. Il mio vecchio maestro era stanco, ma l’umore era buono e, nonostante i suoi ottantanove anni e una salute malferma, che l’aveva portato spesso al ricovero nell’ospedale della Columbia University, emergeva quella positività del carattere che ne ha fatto un uomo appassionato, non solo della filosofia e dell’arte ma, soprattutto, della vita.
Qualche mese fa, per la precisione lo scorso aprile, è uscito What Art Is (Yale University Press). Mi aveva detto che sarebbe stato il suo ultimo libro: aveva raccolto le energie fisiche e intellettuali per terminarlo e per terminare le risposte ai saggi che ventisette, tra filosofi e critici d’arte di tutto, il mondo hanno scritto per discutere e omaggiare la sua filosofia. Una monografia imponente, di oltre 800 pagine, The Philosophy of Arthur C. Danto, edita da Open Court e contenuta nella collana Library of Living Philosophers, che ha – tra i suoi compiti – quello di consegnare alcuni uomini alla storia. Si sono rincorsi a lungo lui e quella monografia: Arthur per riuscire a rispondere ai suoi critici, i curatori per affrettarne l’uscita. La monografia uscirà il 12 novembre. È arrivato per primo Arthur, come sempre.
Arthur Danto è stato un maestro della filosofia e della critica d’arte e rimarrà tra i grandi nomi del Novecento. Per raccontarlo, si può semplicemente partire da quella scatola, la Brillo Box di Andy Warhol, che non ha mai smesso d’incuriosirlo e che aveva sistemato, in una posizione piuttosto discreta, nel salotto di casa. Ancora quella scatola, impilata con alcune altre, più o meno allo stesso modo di come Andy Warhol le aveva sistemate alla Stable Gallery nel lontano 1964, è l’immagine di copertina di What Art Is, nella versione più paradossale e giocosa offerta da Mike Bidlo in Not Warhol. Harvey, Warhol, Bidlo e al centro una scatola: che, nella versione di Harvey, è un oggetto ordinario e che Warhol e Bidlo trasformano in opera d’arte. Come è possibile che questo avvenga, in barba alle leggi della logica e, almeno nel caso dell’opera di Bidlo, al principio della identità degli indiscernibili di Leibniz secondo il quale se due oggetti hanno le stesse proprietà, allora si tratta dello stesso oggetto? Se non esiste alcuna differenza tra un oggetto ordinario e quei ready-made che gli artisti hanno collocato nei musei, allora la filosofia deve farsi carico di spiegare perché quegli oggetti sono opere d’arte e, come accade nel caso delle Brillo di Warhol e di Bidlo, perché sono opere d’arte diverse. In altre parole, per quale ragione Not Warhol non è semplicemente una copia di Brillo Box.

La domanda filosofica che percorre tutti gli scritti di Danto è quindi molto semplice e trova in Ludwig Wittgenstein, il filosofo a cui non cesserà mai di ispirarsi, una delle prime formulazioni. Che cosa rimane, si domanda Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, se sottraiamo il fatto che il mio braccio si solleva, dal fatto che alzo il mio braccio? Che differenza c’è – per dirla con il linguaggio del Danto di Analitical Philosophy of Action (1973) – tra due azioni che paiono indiscernibili, ma che sono profondamente diverse come il sollevarsi del mio braccio, azione repentina con la quale scaccio senza nemmeno avvedermene una mosca, e lo stesso gesto con cui, poniamo, saluto un amico? Wittgenstein aveva risposto che non c’è nessuna differenza.
Significativamente, molti anni prima di occuparsi di scatole Brillo, Danto apre il suo testo sulla filosofia della azione – un lavoro che diventerà seminale per le ricerche in quella disciplina – con un bellissimo esempio tratto dall’arte. Un esempio in cui emerge quale fosse il problema degli indiscernibili nell’ambito della filosofia della azione. Nel ciclo della Cappella degli Scrovegni, Giotto narra in sei episodi la missione di Gesù sulla terra. In ciascun episodio Gesù è dipinto in una postura che lo ritrae con il braccio sollevato e in ogni episodio, l’azione di sollevare il braccio che pure, figurativamente, è la medesima, rappresenta cose diverse: Cristo disputa con gli anziani, caccia i mercanti dal tempio, moltiplica i pani e i pesci, battezza, oppure ordina a Lazzaro di liberarsi dall’abbraccio della morte. Il gesto è sempre lo stesso, Cristo che solleva il braccio, mentre ciò che cambia è l’elemento che ci permette di interpretare l’azione nei modi voluti da Giotto: il contesto iconografico che indirizza i modi di leggere quella azione.

Dove bisogna guardare per cogliere la differenza ontologica che distingue le azioni di base dalle azioni complesse? E dove dobbiamo guardare per capire che cosa distingue due azioni apparentemente identiche? Quello che ci chiede di fare Danto – diversamente da quanto suggerito da Donald Davidson – è di evitare un atteggiamento riduzionista, di impegnarci cioè a formulare una risposta diversa da quella che era stata immaginata da Wittgenstein. Per Danto la struttura logica dell’agire e quella del conoscere (Analitical Philosophy of Knowledge, 1968) è fondamentalmente la stessa, ed è ancora questa struttura che egli individua alla base del problema degli indiscernibili, così come ha preso forma nella produzione artistica delle avanguardie.

In gioventù Danto è stato artista: un pittore che amava praticare la pittura tradizionale. Gli inizi della carriera erano stati promettenti, ma la filosofia lo aveva incuriosito e così, quando vinse il dottorato alla Columbia, decise d’istinto di interrompere del tutto la sua attività artistica, come si fa con gli amori che si abbandonano. Del tutto in linea con la tradizione analitica, per un lungo periodo i suoi interessi filosofici sono stati quelli di un epistemologo che indaga i modi della conoscenza e alcune regioni della realtà, mantenendo quella distinzione nettissima tra ontologia ed epistemologia che ritroviamo ancora nel suo ultimo libro.
È in questo contesto che nascono i lavori di filosofia dell’arte tradotti in moltissime lingue, anche le più esotiche: l’articolo del 1964, The Artworld, pubblicato sul Journal of Philosophy, in cui pone la questione degli indiscernibili applicandola all’arte e, al contempo, elegge le avanguardie a territorio teorico privilegiato; il suo capolavoro, La trasfigurazione del banale (1981), in cui pone in maniera estesa la questione ontologica, tratteggia la distinzione, che non abbandonerà più, tra estetica e filosofia dell’arte, espone le ragioni del suo essenzialismo e, infine, elabora le prime idee per quello che, negli anni successivi, sarà il lavoro fondamentale: la chiarificazione concettuale della nozione di «opera d’arte» (La destituzione filosofica dell’arte, 1986, Oltre il Brillo Box, 1992, Dopo la fine dell’arte, 1997, L’abuso della bellezza, 2003, Andy Warhol, 2009). Ne nascono le due idee che sono il perno della definizione di Danto: l’idea che l’opera è un oggetto fisico capaci di incorporare significati (embodied meanings) che sono a proposito di qualcosa (aboutness). Alcuni di questi significati trovano espressione nel medium che li incorpora, altri lo trascendono. Ancora una volta è tangibile la presenza di Wittgenstein che nel, Tractatus, aveva assimilato gli enunciati alle immagini.

Nel 1984 ha inizio la collaborazione con la rivista «The Nation» che proseguirà per oltre vent’anni. È l’occasione per impegnarsi in maniera militante nella critica e per applicare, in una quantità di scritti che rimarranno esemplari, e che sono raccolti nel volume intitolato Unnatural Wonders (2005), la teoria filosofica alla pratica artistica, ovvero alla lettura delle opere che transitavano per New York, diventata nel frattempo la capitale dell’arte contemporanea. La seconda fase della produzione, quella che si può datare a partire da La destituzione filosofica dell’arte, segna un avvicinamento alla riflessione di tradizione europea. Danto, che anni prima era stato un critico severo delle filosofie della storia (Filosofia analitica della storia, 1965), riservando alla filosofia lo spazio della critica dei fondamenti del sapere storico, trova in Hegel la cifra per fondare la sua idea di arte come concetto chiuso.

È il Danto che, a sua volta, si fa filosofo della storia per descrivere il passaggio dell’arte all’epoca della post-storia. La storia, quella con la ‘S’ maiuscola, ci dirà se aveva ragione. Da qui in avanti per me, e per tutti gli amici che l’hanno letto, e che con lui hanno discusso di filosofia e di arte, comincia la fatica di lavorare e di scrivere senza il suo consiglio. Ho pensato a cosa sarebbero diventate, per me, la filosofia e New York dopo che Arthur se ne fosse andato. New York probabilmente resterà lo scorcio di Riverside Park che si vede dalla finestra del suo salotto. La filosofia ancora non so, ma credo che Arthur mi direbbe «la direzione è quella, ora poniti le domande giuste».