Per chi non frequenti la storia del pensiero ebraico, quello di Shlomo Pines è, forse, un nome senza troppa risonanza o che, nella cornice del secolo scorso, patisce la prossimità di altri, più squillanti, nomi: Leo Strauss, Gershom Scholem, Jacob Taubes, per dirne alcuni. Uno sguardo più in profondità lo inquadra, al contrario, come uno dei maggiori specialisti della filosofia ebraica nel Novecento. Uno studioso tra i più acuti, dal cui lavoro sono uscite soltanto cose essenziali, autentiche, durature, dove l’intuizione prende la compattezza e il peso specifico delle opere grandi, il rigore critico procede assieme all’intelligenza e lo spessore del pensiero si accompagna alla nitidezza della parola.

Quella di Shlomo Pines è una vicenda di spostamenti. Charenton-le-Pont, alle porte di Parigi, poi Riga, Archangelsk, Londra, Berlino, Heidelberg, Ginevra, infine Gerusalemme: stazioni che ripropongono, ritagliato intorno a un uomo e con la forza dell’esempio, il paradigma della migrazione ebraica. Di prossima origine russa e di lontana ascendenza sefardita, Shlomo Pines eredita dal padre – esperto di letteratura yiddish e dottore di ricerca alla Sorbonne – la passione per lo studio e l’inclinazione letteraria. A pochi mesi dalla nascita il primo spostamento, verso la Lettonia, dove Pines vive l’infanzia, incrociando lo studio dell’ebraico alla pratica del russo e dello yiddish. Una radice importante, quella nella cultura russa, che rimarrà salda e spesso affiorante negli anni della scrittura scientifica, tessera fondamentale nella costruzione dell’identità. Identità che, nella percezione dello stesso Pines e almeno fino al 1940, sarà sempre russo-ebraica.

In mezzo, tra il 1908 e il 1940, i passaggi in Germania – dove Pines congiunge lo studio della filosofia e dell’orientalistica, senza tuttavia mai legarsi alla koinè ebraico-tedesca – e in Francia, dove insegna storia della scienza arabo-islamica. Sull’ultima nave che salpa da Marsiglia prima dell’occupazione nazista, Pines lascia la Francia alla volta della Palestina, dove si svolge la sua storia ventennale di studioso e professore di filosofia all’Università Ebraica di Gerusalemme. Tra queste mura, nasce tutta l’opera matura: dall’edizione inglese della Guida dei perplessi di Maimonide, in collaborazione con Leo Strauss, autentico riferimento nella tradizione degli studi, ai molti testi sulla filosofia e sulla scienza arabo-islamica, sulla filosofia medievale e sulla mistica ebraica, fino agli sconfinamenti nel mondo greco-romano e nel pensiero contemporaneo.

Sono diversi i volti che si avvicendano tra le pagine di Pines, tutti oggetto di attenzione minuta e di implacabile setaccio: da Leone Ebreo a Franz Rosenzweig, da Hasday Crescas a Jean Bodin, da Yehudah ha-Lewi a Spinoza, da Flavio Giuseppe a Kant, da Avicenna a Nietzsche. Un eclettismo che non è mai compiacimento d’autore o fuggevole dilettantesimo, ma autentica, molteplice e stratificata conoscenza, ampiezza di sguardo che abbraccia, stereoscopicamente, l’ebraico, l’arabo, il siriaco, il persiano, il turco, il copto, per non dire delle molte lingue europee, tutte possedute in profondità.

Dai cinque volumi dei Collected Works, che ne accolgono gli scritti in inglese e in francese, esce per il pubblico italiano, un’ampia antologia di testi, Le metamorfosi della libertà Tra Atene e Gerusalemme, traduzione e cura di Angela Guidi, introduzione di Giorgio Agamben, Neri Pozza, pp. 456, euro 25,00). Nella ricostruzione di un percorso di vita, oltre che di una fisionomia intellettuale, il volume attraversa gli anni della formazione parigina e quelli dell’insegnamento a Gerusalemme estraendone quattordici saggi, mai tradotti prima in italiano, divisi in tre sezioni. Nella prima, Intrecci e confusioni di culture, il tratto composito e plurale della cultura ebraica, in costante scambio con la sapienza straniera, emerge negli scritti sulla fine del tempo nel libro slavo di Enoch, sulla convergenza tematica tra la qabbalah e certe vene della gnosi, sugli incroci tra Maimonide e Tommaso D’Aquino.

La seconda sezione, Judaica e Islamica, percorre gli spazi del pensiero medievale arabo ed ebraico, mostrandone, ancora, interferenze e debiti reciproci, dentro pagine che si muovono con disinvoltura tra la qabbalah, il Kuzari di ha-Lewi e l’aristotelismo di Averroè. L’ultima divisione del testo ha per titolo Percorsi della modernità e parla più a ridosso del tempo presente: protagonisti ne sono il Trattato teologico-politico di Spinoza, di cui è segnata la chiara ascendenza maimonidea e Nietzsche, vistosa eccezione alla freddezza di Pines verso la cultura tedesca.

Ciò che tiene insieme gli scritti raccolti in questo volume è l’idea di ebraismo attorno cui Pines lavora i suoi concetti, dove è più evidente il gesto disgregatore che accompagna la scrittura. Scomporre lise configurazioni del pensiero, smuovere concetti sclerotizzati, denudare abusate formule è quanto Pines persegue, soprattutto nella definizione di ciò che è l’ebraismo.

L’identità ebraica – questo il cuneo del pensiero di Shlomo Pines e la linea che attraversa l’intero volume – non è mai definita, mai data una volta per tutte. È, all’opposto, un’identità in viaggio e a confronto, che si costruisce solo per la via della combinazione. Lo sa, per primo, lo stesso Pines che dello sconfinare ha fatto esperienza di vita. Essere, da sempre, di faccia all’altro è fonte di continui ripensamenti, di continue rotture della forma. Quella ebraica, attraverso la lente di Pines, è un’identità in contesto e in relazione, mai possesso stabile, sempre negoziata di fronte al diverso. Attraverso continue rifrazioni e discontinuità si smussa, sul testo di Pines, l’idea granitica della singolarità ebraica – sostenuta spesso e più spesso rilanciata dentro e fuori il giudaismo – lasciando il posto a un quadro plurimo e multipolare, dove l’intreccio tra culture risulta in ricchezza di pensiero. Nessuna certezza, dunque, nell’identità ebraica, solo un continuo proporsi della complessità.
Non esiste, di conseguenza, una filosofia ebraica, esistono molte filosofie ebraiche, diversamente profilate dal contatto con la cultura greco-romana, araba, cristiano-europea. E, allargando il raggio, non esiste un ebraismo, esistono molti ebraismi, ciascuno definito nella contiguità rispetto a ciò che lo circonda.

Ha ragione Giorgio Agamben a definire – nella densa introduzione al volume dove risalta il tratto unificante delle pagine che seguono – questa traccia concettuale «il teorema di Pines» e ad allargare l’orizzonte dalla cultura ebraica alle altre, limando ogni pretesa di assolutezza e di centralità: «Non esiste qualcosa come una cultura ebraica, una cultura araba, una cultura italiana, concepite come un’unità storica; esiste un problema ebraico, un problema arabo, un problema italiano». È, quella che emerge dalle pagine di Pines, una frammentazione prospettica che sposta i confini della verità assoluta, quando non li cancella del tutto, aprendo la strada alla libertà del pensiero senza schema, pronto a disfarsi di ogni idea trasmessa per tradizione, assunta per fede o imposta per forza. Sono le stesse parole di Pines a trarre la conseguenza estrema, nel saggio su Nietzsche che chiude il volume e schiude lo spazio del pensare senza limiti: «La logica della libertà reclama la liberazione dalla verità».