La storia dell’architettura armena è inseparabile da quella dell’Impero romano d’Oriente, ovvero Bizantino, che nel lungo periodo che va dalla fondazione di Costantinopoli (324 d.C.) alla conquista dei Turchi (1453) assunse lineamenti suoi propri nella lenta trasformazione dal paganesimo alla religione cristiana, con i suoi aspetti di appropriazione della città antica dei suoi edifici e monumenti.
Altrettanto indivisibili, però, sono gli scambi che l’Armenia, con la vicina Georgia, ebbe all’incirca dal V secolo, con le regioni confinanti: la Mesopotamia, l’Anatolia, la Siria. La sua particolare posizione geografica, le conseguenze politiche (e belliche) della sua prossimità alla Persia, una coscienza radicata di autonomia espressa anche dalla sua chiesa, permise lo sviluppo di un’architettura che divenne egemone nell’Oriente cristiano.
Superato l’impianto basilicale con volta a botte su due file di pilastri (Basilica di Ereruk), la maestria degli architektones armeni, ma soprattutto dei mechanikoi – chi sapeva di calcolo – risultò ineguagliabile nell’abilità di coprire con una cupola lo spazio liturgico con pianta quadrilatera e absidata su tre lati (tetraconco).

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Khor Virap

VIRTUOSISMI
La particolare articolazione della pianta, che nelle espressioni più complesse contiene diverse nicchie, riflette all’esterno le loro sporgenze, le quali creano un particolare gioco stereometrico al quale contribuisce l’emergenza della cupola con il suo tamburo. «Il virtuosismo degli architetti armeni del VII secolo è indubbio – scrive lo storico inglese Cyril Mango – la loro originalità più difficile da provare». Molteplici, infatti, sono state, come si è detto, le influenze subite in quella parte di mondo che, come per l’arte bizantina, non aveva reciso i suoi rapporti con l’antichità (ellenica) e dove si sostennero, attraverso l’alacre impegno delle comunità monastiche, luoghi per il culto disseminati un po’ dovunque nelle valli, sugli altipiani e su colline in posizione sempre dominante.
Nei «secoli bui» della decadenza dell’Impero fiorirono la cattedrale di Echmiadzin (IV sec.), le chiese di Santa Ripsima (618), di Santa Gaiana, di Zvartnots (VII sec., nell’omonimo sito archeologico) e di Shoghakat (ricostruita nel 1694 sulle rovine di una chiesa del VII sec.). Dal 2000 questi luoghi sono stati riconosciuti dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Le chiese di Echmiadzin, la capitale religiosa dell’Armenia, distante venti chilometri da Yerevan, la capitale politica, possono per ora considerarsi salve e la conservazione del patrimonio culturale, è da sempre al centro della politica culturale armena. Non possiamo dire altrettanto nel territorio turco.

Occorre riflettere sul fatto che quando il cinquantenne Joseph Strzygowski esponeva la tesi del primato dell’arte e dell’architettura armena, e più in generale dell’influenza decisiva dell’Oriente, nei confronti della culturale artistica dell’Europa, l’Impero Ottomano tra il 1915 e 1916 perpetrava il genocidio degli armeni, rei di non essere altrettanto nazionalisti come i «Giovani Turchi» saliti al potere.
Se il «grande crimine» è ormai argomento -ancora molto discusso – della storia, permane aperta la questione di quello «culturale», secondo la definizione che ne diede Rafat Lemkin, «un eroe dell’umanità», come titola il saggio di Agnieszka Bienczyk-Missala (The Polish Institute of International Affairs, Varsavia, 2010), rivolto alla battaglia dell’avvocato polacco contro ogni forma di genocidio (ne coniò il termine) ovunque questo si manifesti nel mondo.

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FOGA DISTRUTTRICE
Come si può infatti leggere nel sito web «The Armenian Genocide Museum-Institute» (www.genocide-museum.am) la parola «genocidio non si riferisce solo allo sterminio fisico di un gruppo nazionale o religioso, ma anche alla sua distruzione spirituale e culturale».
Per questo è sufficiente scorrere nel sito le immagini di architetture cristiane di epoca tra il VI sec. e il X-XI sec., provenienti da fotografie scattate prima del genocidio armeno messe a confronto con quelle di anni recenti, dopo le distruzioni compiute nel corso di tutto il Novecento e quando questi luoghi sono diventati possedimenti turchi. Del monastero di Salnapat (X-XIII sec.) a Van, nel villaggio di Koghbantz che uno scatto del 1900 lo mostra in tutta la sua intera e larga dimensione, nel 2004 non ne resta più traccia, mentre al posto del villaggio-monastero di Narek oggi c’è una moschea.

Le testimonianze della civiltà armena sono ridotte in rovine: il monastero di Khtzkonk (VII-XIII sec.), di Bagnayr (XI-XIII sec.), il tempio di Tekor (V sec.), e molti altri ancora. Secondo stime dell’Unesco, nella Turchia orientale dopo il 1923 su 913 monumenti storici armeni più della metà sono svaniti completamente, 252 sono in rovina e 197 hanno bisogno di restauri. Ora poiché questi sono numeri risalenti al 1974 la situazione oggi è sicuramente più grave, ma nonostante i richiami del Consiglio d’Europa tutto procede come se nulla fosse e i monumenti della storia e della cultura armena (quel che resta) continuano a essere saccheggiati e distrutti nella repubblica di Erdogan.

SCHEDA

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La scoperta del modernismo sovietico della seconda metà del XX secolo con la mostra nel 2012 all’Architekturzentrum di Vienna (Sowjetmoderne 1955-1991. Unbekannte Geschichten) seguente la pubblicazione del libro fotografico di Frédéric Chaubin «CCCP Cosmic Communist Costructions Photographed» (Taschen, 2011), ha determinato il lento processo di rivalutazione delle architetture dell’epoca di Nikita Krusciov così singolari per la loro straniante configurazione volumetrica, in bilico tra sogni cosmici e magniloquenza ideologica. Anche in Armenia se ne possono vedere importanti esempi. Nella capitale Yerevan, Stepan Kyurkchyan disegna la «Komitas Chamber Music House» (1977), un monolite di pietra e vetro, e Zhanna Mescheryakova la «Casa di scacchi Tigran Petrosyan» (1967-1970). La Stazione Metro Yeritasardakan (1972-1981) di Stepan Kyurkchyan è un cilindro che si conficca in diagonale nel suolo, mentre il «Cinema Rossiya » (1975) degli architetti Spartak Khachikyan, Hrachik Poghosyan e Artur Tarkhanyan sono due prismi curvi che si poggiano su un basamento di negozi. Nella penisola di Sevan, il resort estivo (1965) di Gevorg Kochar, Levon Cherkezyan, Mikael Mazmanya, in corso di restauro, conferma quanto ha scritto Ruben Arevshatyan riguardo il rispetto che gli armeni hanno dell’eredità sovietica; ormai hanno compreso il legame tra la «conservazione del patrimonio architettonico moderno e la difesa dello spazio pubblico: improvvisamente, la discussione e l’atteggiamento verso questi edifici sono diventati politici». ma. giu