Le pagine ormai ingiallite e logore di un vecchio diario, uno schedario zeppo di nomi, una considerevole mole di lettere e documenti, qualche foto: è quanto ci resta di una delle più complesse operazioni umanitarie organizzate e attuate in Europa durante la Seconda guerra mondiale. È quanto, però, ha consentito all’austriaco Wilhelm Kuehs, già autore di varie opere narrative, di scrivere Dianas Liste (La lista di Diana, Tyrolia Verlag, pp. 252), questo «romanzo biografico» con il quale ha meritoriamente raccontato la storia di Diana Budisavljevic: una vicenda caduta purtroppo nell’oblio che ora viene messa a nostra disposizione permettendoci così di apprendere quanto l’attività di soccorso svolta da una donna del tutto fuori del comune sia stata preziosa.

IL DIARIO, ritrovato negli anni ’80 dalla nipote di Diana, Silvija Szabo, riporta quasi esclusivamente fatti e osservazioni. Kuehs, dal canto suo, utilizza periodi brevi, che conferiscono alla narrazione un ritmo piuttosto rapido; grazie alla scorrevolezza, la sua scrittura si caratterizza inoltre per efficacia mentre il lessico appare nel complesso essenziale e incisivo. Riguardo poi ai registri espressivi, l’autore si dimostra in grado di passare dai toni del dramma a quelli improntati alla malinconia e, talvolta, all’ironia: è così riuscito a realizzare un’armonica sintesi tra i numerosi passi diaristici citati e i propri interventi.
Diana Oberexer era nata il 15 gennaio del 1891 a Innsbruck, la capitale del Tirolo dove avrebbe trascorso i suoi ultimi anni e sarebbe morta il 20 agosto del 1978. Conobbe il futuro marito, Juljie Budisavljevic, un celebre chirurgo di nazionalità serba, in una clinica universitaria della sua città.

Lo seguì a Zagabria; in Croazia iniziò ben presto a impegnarsi in operazioni di soccorso volte ad aiutare quanti – soprattutto bambini, sia ebrei che serbi – erano stati scacciati dai loro paesini a seguito dei rastrellamenti effettuati dai fascisti croati e sembravano destinati a morire di stenti nei lager degli ustascia: Loborgrad, Gornja Rijeka, Jasenovac e Stara Gradiška. Si trattava di campi di concentramento, dove erano state recluse anche parecchie donne, le cui condizioni igienico-sanitarie erano estremamente problematiche e nei quali la scarsità di generi alimentari rendeva drammatica la situazione dei prigionieri. Reduce da una visita a Loborgrad, Diana Budisavljevic scrisse: «Non potevamo stare a guardare, mentre i bambini morivano». Fondò dunque una propria organizzazione (Aktion) per dare loro cibo e riparo e metterli in condizione di sopravvivere: tra il 1941 e il 1945 con coraggio, ostinazione e sprezzo del pericolo riuscì in tal modo, insieme ai suoi collaboratori, a salvare circa 10mila persone. A questo proposito sembra senz’altro opportuno ricordare come l’attivista austriaca si sia trovata a operare avendo di fronte lo Stato indipendente di Croazia, vale a dire il regime di Ante Pavelic: costui, intenzionato a difendere l’elemento etnico croato e a fare del suo Paese una sorta di bastione del cattolicesimo integralista, aveva dato avvio – fin dall’aprile del 1941 – a una vera e propria pulizia etnica volta a colpire cristiani ortodossi, ebrei, zingari e comunisti.

RIGUARDO la questione ebraica, apparve ben presto chiaro che sarebbe stata risolta nella maniera indicata dall’alleato nazista. Il regime allestì dunque una rete di campi di concentramento che arrivò a coprire l’intero territorio del Paese e diventò ben presto sinonimo di sterminio. Nell’estate del 1942, dopo aver visitato l’ospedale pediatrico del lager di Stara Gradiška, Diana Budisavljevic annotò: «Stanze prive di ogni arredamento. Per terra solo una sfilza di vasi da notte. Alcuni sdraiati, altri seduti, bambini piccolissimi incredibilmente magri. Ognuno portava scritto in volto che stava morendo».
Successivamente però, quando le autorità croate, temendo che nei lager scoppiasse e si diffondesse un’epidemia di tifo, decisero di rilasciare i bambini le cui madri erano state trasferite in Germania in qualità di lavoratrici coatte, Diana Budisavljevic riuscì a strappare loro il permesso di affidare i piccoli a famiglie disposte ad accoglierli e a organizzare il relativo trasporto. Furono così liberati oltre mille bimbi. L’accordo prevedeva inoltre che, a guerra finita, i bambini sarebbero tornati dai loro genitori.

ALLO SCOPO di rendere possibile il ricongiungimento, i componenti dell’Aktion approntarono dunque, fin dall’aprile del 1942, un dettagliato schedario in cui erano state registrate le generalità e le foto di tutti i bambini. Scrive al riguardo Wilhelm Kuehs: «Ogni piccolo riceveva una medaglietta, da tenere appesa al collo, sulla quale era stato scritto il suo nome. La lista recava invece il nome del bimbo, quello dei genitori e ne indicava inoltre il luogo di origine». Sul finire del conflitto l’elenco, che avrebbe consentito a tante madri di ritrovare i propri figli, giunse a raccogliere circa 12.000 nomi: erano quelli di bambini provenienti da tutte le regioni della Croazia.
Qualche giorno dopo la liberazione, avvenuta l’8 maggio del 1945, la «lista di Diana» fu però sequestrata per ordine del nuovo governo jugoslavo. Il regime socialista fece in seguito quanto era in suo potere perché il merito della grande operazione umanitaria realizzata nel corso del conflitto fosse attribuito ai partigiani croati: il fondamentale ruolo che vi aveva svolto Diana Budisavljevic passò in tal modo quasi del tutto sotto silenzio.
Lei continuò a restare defilata, così anche nei decenni a seguire. Poi, nel 2012, a conferirle la medaglia d’oro alla memoria ha provveduto la Repubblica di Serbia; le autorità croate, finora, si sono invece limitate a intitolarle un parco a Zagabria.