Catastrofe, sciagura, collasso: come altro si potrebbe definire la situazione in cui è strapiombato il Libano e che più passa il tempo più si aggrava? Da una settimana il dollaro – moneta ufficiale in Libano e che al cambio ormai irreale vale ancora 1.515 lire libanesi – supera al mercato nero le 15mila lire e perde il 90% del suo valore. L’inflazione è vertiginosa. Ieri le farmacie e da un paio di giorni alcuni alimentari e negozi di generi essenziali hanno sospeso le vendite e chiuso i battenti, perché anche vendendo sono in perdita.

La benzina è introvabile e nei distributori aperti viene dilazionata dopo che martedì il premier uscente Diab ha annunciato che lo Stato potrà calmierarne il prezzo solo fino a fine marzo. Significherebbe un aumento sensibile del costo dell’elettricità, quasi interamente prodotta a diesel e garantita in Libano a seconda delle zone solo per un numero limitato di ore e integrata con quella fornita dagli innumerevoli generatori privati anch’essi a diesel. I disagi per i tagli già si sentono da mesi. Stesso discorso per medicinali e grano, finora sussidiati. Scene surreali nei supermercati per fare scorte di pane.

L’economia libanese devastata da decenni di privatizzazioni è l’emblema del neoliberismo più sfrenato. Tutti i settori strategici – scuola, sanità, energia – sono in mani private e il Libano importa generi primari e secondari per l’80% del proprio fabbisogno. Il clientelismo e la corruzione che imperano e contro cui si era scagliata la rivolta del 17 ottobre 2019 con una partecipazione popolare senza precedenti, chiedendo al grido di kullun yanee kullun (tutti, proprio tutti) la destituzione in blocco della classe politica che ha letteralmente portato il paese alla fame, hanno amplificato l’inefficienza endemica di un paese vittima di 25 anni di guerra civile (1975-90). Una classe politica immutata da allora, fatta di partiti a gestione familiare che si alimenta di nepotismo e che lo alimenta.

La gente è da giorni riversa nelle strade incurante del Covid che continua a mietere una settantina di vittime al giorno. Il Libano conta sette milioni di abitanti, misura solo 10mila km2 e i contagi oscillano intorno ai 3mila casi giornalieri. Si tratta ovviamente di cifre al ribasso: tamponi e cure mediche sono a pagamento, di questi tempi un lusso.

Tripoli, Jal el Dib, Saida, Beirut sono solo alcuni dei luoghi in cui i manifestanti bloccano da una più di una settimana le arterie stradali principali. Lanci di molotov, sassaiole, roghi di pneumatici, scontri con la polizia fuori dalla Banca centrale, dal parlamento: i manifestati sfogano come possono impotenza e frustrazione. Ma anche nelle file dell’esercito comincia a crescere il malcontento, suggellato dalle parole del generale Joseph Aoun di una decina di giorni fa: «I soldati stanno soffrendo e hanno fame».

«C’è un’opportunità». A meno di 24 ore dall’ultimatum lanciatogli dal presidente Aoun di formare un governo o lasciare l’incarico, queste le parole del premier incaricato Hariri subito dopo l’incontro avvenuto ieri al palazzo presidenziale di Baabda tra i due. Lunedì si dovrebbero rivedere per definire i termini di un nuovo esecutivo che riacquisti «credibilità internazionale e affronti il collasso con l’aiuto del Fondo monetario internazionale», continua Hariri.

Una cosa è chiara: non si può più attendere e il gelo Hariri-Aoun che dura ormai da mesi deve necessariamente sciogliersi. Il quattro volte premier vorrebbe un governo di tecnici soprattutto nei dicasteri chiave e l’eliminazione del potere di veto dei partiti, punti sui quali il presidente è sembrato fino ad ora irremovibile.

Già a capo della delegazione che in occasione dell’esplosione al porto dello scorso 4 agosto aveva raccolto 253 milioni di euro di aiuti a patto di riforme, anche Macron è intervenuto ieri sulla crisi e ha palesato il bisogno di un cambio di «metodo e approccio» nella questione libanese sulla cui risoluzione il primo ministro francese ha investito in termini sia di prestigio personale che di politica estera.

Un esito positivo vedrebbe la Francia riacquistare quel ruolo di primo piano nel nuovo assetto egemonico del Medio Oriente ceduto negli anni a Russia e Stati uniti o a nuovi attori come Cina e Turchia e ne farebbe di Macron il paladino. È già annunciata la sua terza visita dall’esplosione. Qualunque sia la soluzione, non c’è più tempo e bisogna intervenire prima che spettri di un passato mai così vicino tornino irrimediabilmente prepotenti.