«Alle volte passano degli anni senza che si parli più di Fabrizio De Andrè, senza fargli più omaggi» racconta Gianfranco Cabiddu, regista di Faber in Sardegna. «Ma appena si parla di lui è subito evidente quanto sia entrato in profondità nell’animo della gente dalla risposta e dall’affetto incredibile che continuano a tributargli». Ed infatti il suo documentario, uscito brevemente il 27 ed il 28 maggio – e in programmazione il 10 giugno al Biografilm Festival di Bologna – è tornato in sala da ieri con una distribuzione ordinaria in quasi tutti i capoluoghi, dopo che in soli due giorni di programmazione ha totalizzato 300.000 euro al box office.

 

 

Faber parte dall’esperienza di De Andrè sull’isola di cui, dice il regista, «Si sa molto poco. Da come se ne parla sembra quasi che come tanti altri De Andrè aveva semplicemente una casa in Costa Smeralda». Gli anni Settanta, quando il musicista stabilì la sua residenza in Sardegna, erano infatti i tempi in cui cominciava la colonizzazione di lusso delle coste al nord dell’isola. Ma, come spiega Cabiddu, l’esperienza di De Andrè fu di tutt’altra natura: «Lui si è trasferito per chiudere con la musica, cambiare vita e costruire un’azienda agricola. Per mettere le mani dentro la terra, modificarla: ha portato le vacche dalla Francia, ha fabbricato un lago artificiale. Ha avuto a che fare con la terra in senso pratico e non turistico».

 

 

Da Portobello di Gallura, un villaggio costruito da alcuni imprenditori genovesi dove De Andrè aveva la sua casa al mare, il cantautore si sposta con la famiglia verso l’interno: «Una scelta che comporta proprio il chiedersi: dove sto vivendo?».

 

 

Il punto di partenza e centro di irradiazione del documentario diventa così la sua casa sul Monte Amiata, sopra Tempio, che l’amico Renzo Piano lo aiutò a ristrutturare, e intorno a cui si svolsero tutti i rapporti umani e artistici che De Andrè ebbe sull’isola, a partire da quello con il suo fattore: «Che non è un rapporto intellettuale ma di due persone completamente diverse eppure complementari».
Dice ancora Cabiddu: «Mi interessava capire come il luogo in cui viveva ha influenzato parte della sua musica; ad esempio nella fissazione di imparare le lingue, anche fonicamente e sonoramente. Ha scritto tante canzoni in sardo, usando degli strumenti tipici della cultura del posto».

 

 

Come racconta uno dei suoi amici nel documentario, il gallurese di De Andrè era addirittura migliore, più aulico, di quello della gente del posto, «imbastardito» dall’incontro con l’italiano.
Per l’autore di Faber è un altro «elemento di fascino che è sfociato nell’idea di raccontare l’aspetto intimo, la particolarità e la profondità della sua vita quotidiana in Sardegna, che vedevo sottovalutata nell’agiografia di De Andrè».

 

 

Cabiddu (tra i suoi film ricordiamo Il figlio di Bakunin) viene da un rapporto di lunga data con la musica: da tempo collabora con il trombettista sardo Paolo Fresu al suo Festival Time in Jazz, e con lui ha realizzato anche il documentario musicale Passaggi di tempo – Il viaggio di Sonos e Memoria, oltre ad essere il direttore artistico del Festival Creuza de Mà di Carloforte sulla musica per il cinema. Un curriculum che sottolinea questa passione per la musica – «l’amore forse più radicato di tutti» – dove De Andrè occupa un posto particolare.

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Il progetto di Faber in Sardegna nasce proprio durante Time in Jazz: «Tra il 2005 al 2011 abbiamo fatto degli omaggi a De Andrè con una serie di concerti unplugged nella sua tenuta dell’Amiata in cui si sono alternati tantissimi musicisti sia di jazz – come Danilo Rea o lo stesso Fresu – che della canzone italiana, come Ornella Vanoni, Morgan o Cristiano De Andrè. Io ho ripreso tutti questi concerti, e ho conosciuto un po’ più dall’interno la casa di De Andrè e l’avventura ad essa legata». Le immagini di repertorio dei concerti tributo del Time in Jazz sono una delle componenti principali e più toccanti del film, mentre la seconda parte è costituita dall’ultimo concerto del musicista al Brancaccio di Roma. Poi ci sono le testimonianze di chi ha vissuto quest’avventura al suo fianco a partire da Dori Ghezzi.

 

 

«Una figura essenziale, che nella percezione del pubblico è colei che tiene viva la memoria del compagno. Ma in questo caso è lì fin dall’inizio: lei e Fabrizio hanno fatto tutto insieme. Stiamo parlando di due ragazzi poco più che trentenni che fanno una scelta di vita, iniziano un sogno insieme. Io ho cercato di farmi da parte perché tutto questo arrivasse nella maniera più semplice, proprio nel modo in cui mi è stato raccontato sia da Dori che da tutti gli altri».

 

 

Anche a proposito dell’evento che tutti conoscono sull’avventura in terra sarda di De Andrè: il sequestro. «Da regista sardo sentivo il dovere di raccontare l’esperienza terribile del rapimento di una persona che nonostante tutto ha deciso di restare in Sardegna, e anzi dopo questa vicenda ha iniziato a girarla ancora di più, e a chiedersi che cosa portasse al brigantaggio. Anche questo è entrato nella sua arte perché, come dice Dori nel documentario, dopo il rapimento De Andrè ha scritto le sue cose più belle, da L’indiano in poi».

 

 

Una musica e una terra che vengono mostrate in costante comunicazione, in uno scambio reciproco «speciale» perché, spiega Cabiddu, «la nota caratteristica specialità è nell’arte dell’incontro». E la ricerca di Faber in Sardegna è proprio sulla natura di questo incontro, partendo dalla domanda più banale: «Che cosa vedeva De Andrè tutto il giorno?». «In questo senso devo essere grato alla produzione, che mi ha consentito di girare nell’arco di un anno. Di solito il paesaggio è trattato come una cosa che sta sullo sfondo, invece sono riuscito a mostrarlo quando nevica e quando torna l’estate; rendere il suo paesaggio quotidiano mi sembrava importante anche per restituire qualcosa alla Sardegna». La Sardegna vista con gli occhi di Faber.