Dora Pal. La Terra di Ida Travi (Moretti&Vitali, pp. 135, euro 14) è un testo poetico che pone questioni urgenti: come trovare le parole in questo mondo, sferzato da forze contrastanti? Come e da dove parlare quando migliaia di parole lo invadono? Quello che Ida Travi suggerisce è di trovare un modo generativo di nominare le cose.
Per far questo ha dato vita a un mondo intermedio, quello che potrei chiamare una «terra di mezzo». Non la terra dei fatti, ma neanche un mondo di pura fantasia. Questa terra di mezzo, che lei chiama dei Tolki, degli esseri che parlano, da talk, parlare, ha una forza simbolica che Travi ci offre perché ne possiamo partecipare. È quello di una ragazza, di un bambino, di un uomo, di una vecchia. Vivono in campagna circondati da poche cose. È un mondo non contemporaneo eppure presente. Vicino e non vicino.

QUESTO È IL QUARTO LIBRO di quella che potremmo chiamare una saga. Ogni volume ha avuto un protagonista diverso. Ora la ragazza, ora l’uomo e così via. C’è stato Tà – poesia dello spiraglio di neve (2011), Il mio nome è Inna (2012), Katrin, saluti dalla casa di nessuno (2013). Questa volta a prendere la parola è la vecchia, capelli d’argento e grembiule nero. È lei «a dare il la» del discorso poetico. A intonarne il basso continuo.
Usando questo termine, mi riferisco al testo Poetica del basso continuo (2015), dove Ida Travi mostra la scelta di una lingua poetica «bassa», segnata da mancanza, fragilità, che si misura con il necessario.

IL TITOLO DEL LIBRO è Dora Pal. La Terra. Alessandra Pigliaru nella postfazione lo spiega: Dora ha a che fare con il donare, Pal con pan, con il tutto. Quindi Dora Pal è la vecchia, ma è anche contemporaneamente quella che sa del dono che viene dalla Terra, ed è lei stessa quella che dona, che indica quel che dobbiamo fare e non fare. La Terra è il tutto ed è anche la terra che calpestiamo. Chi ha radici nella terra ci dona un altro sguardo sul mondo storico.
Leggendo il testo, si ha l’impressione di uno spazio sospeso. È effetto di un guardare diversamente ciò che viviamo, in cui il ricordare va di pari passo con l’oblio, il sogno con la veglia. Se liberiamo l’anima di tutto quello che la ingombra, allora nel silenzio è possibile ascoltare una parola germinativa, che però per suo conto è oscura.

Possiamo con le nostre parole stare in sintonia con essa e nominare le cose, riprendendo il gesto della lingua materna che dà i nomi. In questo passo si sente l’assonanza con la lingua materna: «Ma tu non fai che chiedere, Vre / – e io non so che dire – / Se non fosse già qui non saprei dirti il buio / non saprei dirti perché la margherita / e dunque cosa c’entro io con questo mondo…/». Si dice solo mostrando, indicando in presenza: questo il buio, questa la margherita. Lo diciamo ad un altro che chiede.

DISPIEGARE I NOMI dal silenzio porta ad una trasformazione del rapporto tra noi e le cose, tutti allora sullo stesso piano: «Eravamo alla stessa altezza la foglia ed io/ e sotto il fondamento cantava la tempesta/ fischiava il merlo nero/ Sopra la testa altera/spunta la rosa bianca». La rosa bianca è simbolo del silenzio che si schiude. Nella parola che ne proviene tutto diventa della stessa pasta d’esistenza, il mio io, la foglia, il merlo, le cose tutte. Non ci sono più il soggetto e l’oggetto, ma esseri nella loro solitudine che provengono dal movimento dello schiudersi.
«La luce ti darà la solitudine / sotto sotto c’è la solitudine (…) Sola è la brocca, sola la fontana / sola la pietra, solo il ramoscello (…) / Dormono in solitudine le bestie / dormono i bambini / poi viene qualcuno e mostra la lettera. / Allora alzatevi – dite qualcosa / dite qualcosa alla rosa rossa». Rosa rossa è simbolo d’amore. La parola che risveglia è quella che ha lo slancio dell’amore che tutto mette in movimento.

LE COSE NOMINATE sono tante: «Questo è il villaggio, questa è la tettoia / (…) e qui ci sta il quartiere… / tutto qui intorno si chiama quartiere / e questo è l’albero / questo è il recinto / (…) la strada è per di là / la vedi? per di là…». Ogni cosa nominata è singolare e nel nome porta il suo destino. Il destino è il filo da srotolare che il nome indica. Il destino custodito dal nome è l’immagine. «Cerca le parole e troverai le immagini. Nelle squame dei pesci, nei fossi, nelle ali degli uccelli. Dietro le porte dell’ex-ufficio, in laboratorio. Nel sacchetto, nel secchio. Nel libro, nel fiore. E qui. Nell’androne».

Un po’ di sbieco, Ida Travi fa capire che dare nomi è un lavoro. Lavoro poetico, certo, comunque l’unica cosa che si possa fare in questo momento. Lavoro ostinato del linguaggio senza tanti grilli per la testa e senza pensare che sia creativo, «artistico». Ma anche senza paura. È prima di tutto necessario: «Se ascolti il soffio sentirai la voce / era così all’inizio / Altissimi volavano gli uccelli / e il celeste scendeva sulle case / Adesso ci sei tu e qui ci sono io / d’accordo? E dunque ascolta me / fa’ quello che dico io, io!». Quello che possiamo fare adesso, noi qui, è ascoltare il soffio e tradurlo facendo lavoro di parola.

A me sembra che questo testo poetico, nella sua fedeltà al compito umano di generare la lingua, sia un libro politico, nonostante a prima vista non abbia nulla per apparire tale. Ci offre una strada da percorrere, un metodo in un mondo travolto da linguaggi sradicati. Altrimenti «il mondo si scioglie in pianto».