Il 10 luglio è stato presentato alla Camera l’ultimo rapporto Invalsi che fornisce i dati di oltre cinque milioni di test che da marzo a giugno sono stati «somministrati» nelle classi II e V della primaria, III media e ultimo anno delle superiori. La secondaria di secondo grado ha partecipato per la prima volta al rilevamento. Tutti i test sono stati Cbt (computer based testing), insomma si sono fatti al computer.
Il quadro che ne è uscito è a colpo d’occhio quello di un paese diviso in due: un nord dove si legge e si scrive in modo adeguato e un sud dove non si raggiungono i livelli minimi (pressoché identica la preparazione sull’inglese).
Tuttavia, rispetto allo scorso anno, sono stati rilevati segnali di miglioramento che non possono essere immediatamente inseriti in un trend storico dato che solo da quest’anno Invalsi mette a confronto anni diversi (non possiamo sapere se negli ultimi dieci anni, per esempio, il miglioramento è stato significativo oppure è un effetto ottico recente).
L’aula parlamentare ha accolto distrattamente il report, ma il ministro Marco Bussetti ha dichiarato alla stampa di essere «preoccupato» . Alle 17,33 del 10 luglio stesso l’Ansa ha battuto una notizia dal titolo inequivocabile: Studenti italiani «ignoranti». Bussetti, dati preoccupano.
Malgrado il «leggero miglioramento», è scattato – del tutto evitabile – l’allarme: i ragazzi sono analfabeti in matematica, l’Italia è divisa in due, al sud il 30% dei giovani non riuscirebbe a comprarsi neppure un biglietto del treno. Uno schema trito e ritrito che, evidenziando le carenze dei ragazzi, diventa in realtà occasione per sparare a zero contro la scuola pubblica. Lo fa la stampa di destra e anche quella che si percepisce progressista. Lo fanno giornalisti e intellettuali, uniti, come sempre più spesso succede, in un lamento sul presente che non ammette repliche: la scuola è drammaticamente peggiorata. Da quando, però, non è dato saperlo, o meglio: alcuni dicono dal 68, altri dalla riforma Berlinguer, evidenziando come in entrambi i casi le fratture portano inevitabilmente al peggio e nel passato si annidano tutte le virtù.
I nodi teorici su cui ragionare, in realtà, sono i modi in cui viene condotto il discorso pubblico sulla scuola, affidato ormai da tempo alle medesime storie, agli stessi schemi, figure retoriche. La fotografia, il paese diviso in due, i ragazzi che non sanno più leggere.

PARTIAMO DALLA FOTOGRAFIA. Invalsi usa questa metafora da anni: il rapporto fotografa. L’idea è che la fotografia sia uno strumento neutro di lettura della realtà, neutro e incontrovertibile: se invalsi disegna un paese diviso in due, il paese è diviso in due. Non tireremo in ballo la filosofia per denunciare la prima deformazione prospettica: la fotografia sceglie il punto di vista, lo stesso oggetto, la stessa persona, lo stesso evento storico possono essere rappresentati in modi diametralmente opposti. Prendere per buona la metafora della fotografia è il primo grande errore. Invalsi non fotografa bensì racconta e lo fa in base a criteri del tutto opinabili: come è stato messo in luce da Cristiano Corsini fra gli altri, pretendere di valutare un sistema di competenze a partire da un sistema di misurazione che si fonda sull’accumulo di informazioni è in sé sbagliato.
Il rapporto non dovrebbe dirci cosa i ragazzi sanno, ma come usano le informazioni che hanno. Magari al sud hanno passato più tempo a studiare poesie a memoria, o regole grammaticali ma poi di queste regole non sanno cosa fare. Questo ci dovrebbe dire il rapporto. Non dunque analfabeti, non deprivati linguisticamente, ma, semmai, lontani da metodi didattici nuovi, esattamente l’opposto di quello che lamentano i giornali.

IL PAESE DIVISO IN DUE. La scuola, i suoi successi, si misurano sulla lunga durata e che la scuola italiana sia a diverse velocità lo sappiamo dai tempi della riforma Casati; l’inchiesta Gonnella del 1947 denuncia la distanza fra le scuole dei centri urbani e quelle di campagna; Lettera a una professoressa del 1967 racconta la tragedia delle scuolette di media montagna; un recente rapporto sulle aree interne del paese mette in luce come la distanza dai centri urbani sia un fattore di debolezza strutturale a prescindere dalla latitudine dei paesi osservati.
Ma, in tempi di Lega, fa comodo a tutti parlare di nord e sud: c’è chi ne approfitta per lanciare l’idea di nuovi tavoli di lavoro, novelle microcasse per il mezzogiorno di stampo assistenziale; chi ovviamente invoca la necessità di separarsi dal sud improduttivo. Nel nord, per esempio, la provincia autonoma di Bolzano esce malissimo dalle valutazioni: una cartina di tornasole per guardare alla questione della lingua come una questione da rimettere al centro del dibattito pubblico, come scriveva Antonio Gramsci: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale».

I RAGAZZI NON SANNO più leggere. Su questo, lasciamo la parola a Tullio De Mauro, attaccato da destra e manca, come uno degli artefici della distruzione del sistema scolastico pubblico in Italia, non senza ricordare che, come ha scritto Monica Galfré, «non è nuova la tendenza a scaricare sulla scuola le colpe delle crisi più drammatiche dell’Italia unita, o almeno di processi ben altrimenti complessi, che nella situazione scolastica hanno solo una delle loro manifestazioni. Da Pasquale Villari, che all’indomani delle sconfitte del 1866 – com’è noto – individua un pericoloso nemico interno nel ’quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi’, puntando il dito sulle carenze dell’istruzione; alla Commissione parlamentare sul terrorismo e sul caso Moro, che ne parla come del tallone d’Achille della Repubblica».
Alla scuola si chiede molto ma quanto si dà, in termini di riflessione e investimento? Come scrive Giulia Addazzi l’allarme è un’ennesima forma di violenza e aggressione, inutile, che si somma al 3,8% del pil in investimenti sull’educazione (a fronte di una media europea del 4,8) oppure in quella totale assenza di responsabilità che è il continuare a rimandare i concorsi e le assunzioni, mandando in cattedra ogni anno quasi centomila precari e supplenti.
De Mauro dunque: «Un grande giornale (…) ha comunicato che gli adolescenti italiani d’oggi conoscono soltanto circa seicento parole. Ora, seicento parole è il patrimonio lessicale minimo produttivo di un bambino treenne (…). In uscita dal primo ciclo delle elementari bambine e bambini sanno controllare produttivamente e ricettivamente molti usi delle 2.000 parole italiane del lessico fondamentale dell’italiano (…) e, a seconda della bontà dell’insegnamento e della solidità culturale del loro ambiente, posseggono altre migliaia di parole del vocabolario che diciamo di ’alta disponibilità’ e di quello di rilevante frequenza e comune. Certamente, abbiamo bisogno di accertare con maggiore precisione i numeri medi anche di questi anni di d’età e dei successivi. Ma le parole dei nostri adolescenti sono migliaia e migliaia. E un quotidiano stimato dovrebbe guardarsi dal diffondere sciocchezze di chi, evidentemente, è del tutto ignaro di questioni linguistiche. Dobbiamo uscire dall’innocenza e farci capaci di una valutazione critica di tutta l’informazione. Dobbiamo tenere conto del fatto che in materia di scuola e di lingua molti intellettuali e politici, dato che sono andati a scuola e a scuola ci va la sorellina o la nipotina, e dato che parlano, si sentono autorizzati a sparare panzane a ruota libera. Come se, per il fatto di vivere nel sistema solare, ci sentissimo autorizzati a dare pareri di astrofisica o, causa raffreddore, in materia di batteriologia e virologia. Eppure questo avviene per la scuola e per la lingua». Tutto qui.