Cultura

La lingua guarisce le ferite coloniali

La lingua guarisce le ferite colonialiKamel Daoud

Intervista Parla Kamel Daoud, il giornalista e scrittore algerino che ha pubblicato «Le mie indipendenze» con La Nave di Teseo. «Il mondo arabo ha perso fiducia nell’Occidente dopo la guerra in Iraq, con le sue motivazioni fasulle. Per la mia generazione è stato il crollo del 'mito della civiltà'»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 19 gennaio 2018

Quella tra Oriente e Occidente è una relazione fatta di paura, ignoranza e rancore, di violenza, rifiuto e negazione. Islamismo e terrore sono i mostri nati da questo strappo». A parlare è Kamel Daoud, giornalista e scrittore algerino, conosciuto in Europa (soprattutto) per Il caso Mersault, romanzo-specchio di un classico come Lo Straniero, di Albert Camus. La sua prosa ha descritto lucidamente il Maghreb e il Medio Oriente, tracciando i contorni di conflitti, interessi economici e derive culturali ancora in atto. Con un’attenzione particolare: l’Algeria, dove è nato e vive tuttora.

Daoud, lei proviene da un Paese orfano del suo Presidente: Abdelaziz Bouteflika, pur essendo ancora in carica, vive da tempo lontano dalla scena pubblica. Quali sono le ricadute di questa assenza?
Il mio Paese è ostaggio di se stesso: ricco, ma in ginocchio a causa della corruzione e di un regime gerontocratico che rifiuta ogni transizione verso la maggioranza demografica, costituita dai giovani; centrale per il Nord Africa, ma al centro di un fragile accordo tra dittatura e islamisti; circondato da richieste di democrazia che vengono presentate come «cospirazioni straniere». Le persone inseguono il cambiamento, ma ne hanno paura: è ancora troppo vivo il ricordo della guerra civile, del terribile confronto con il Fis (Fronte islamico di salvezza, ndr). Gli algerini vivono ciò che sta accadendo nel resto del mondo come un déjà vu della loro tragedia anni ’90. All’epoca erano soli, non c’era neanche youtube, e il regime contava sulla loro paura: l’inerzia diventava così una condizione necessaria per la stabilità.

Anche il giornalismo algerino vive un periodo difficile, come testimonia la recente censura del sito di informazione «Tout Sur l’Algérie»…
Eppure, la stampa algerina è stata una delle più libere al mondo. Nacque dal dolore, all’inizio della guerra civile, e fu espressione della resistenza, con i suoi vizi e le sue virtù. La censura è tornata negli ultimi anni, da quando lo Stato si è sentito più forte per i fallimenti in Libia e in Siria. La stampa indipendente – come Tsa – viene schiacciata dalle pressioni di uomini di affari vicini al potere o da quelle di matrice islamista, incoraggiate dal regime per isolare la popolazione. Temo che il peggio debba ancora venire.

Il suo ultimo libro, «Le mie indipendenze» (La Nave di Teseo, pp. 456, euro 21), è una selezione di articoli scritti per testate internazionali, dal 2010 al 2016. Affronta temi diversi, tra cui la relazione fra Oriente e Occidente…
È un rapporto fatto di violenza, paura e negazione. Più che di relazione, parlerei di rottura. Il mondo arabo ha perso fiducia nell’Occidente dopo la guerra in Iraq, con le sue motivazioni fasulle. Per la mia generazione (Daoud è nato nel 1970, ndr) è stato il crollo del «mito della civiltà» incarnato dall’Occidente. Questo vuoto ha permesso un ritorno della diatriba sulle crociate, a favore di islamisti e complottisti. Ecco perché la retorica della memoria coloniale, arricchita da argomentazioni religiose, ha attecchito così bene: islamismo e terrorismo sono solo i mostri nati da questo strappo.

È per questo che il tema della «decolonizzazione del corpo e della lingua» torna spesso?

Dobbiamo uscire dalla comoda posizione postcoloniale e dal circolo vizioso dei religiosi. «Decolonizzare il corpo» vuol dire trovare un ideale di libertà che metta fine alla sofferenza e al dibattito religioso, che in nome della purezza lo colpevolizza. Quanto alla lingua, serve guarire la ferita coloniale e aprirci all’altro.

Come hanno convissuto in lei il francese, l’arabo e la scrittura?
Le lingue sono sempre state le mie finestre sulla realtà: una fonte di arricchimento. Il francese per i libri, i viaggi e l’immaginazione; l’arabo per la scuola e la famiglia. Scrivere, invece, è l’unico modo che conosco per abbracciare il mondo.

Ha definito «malata» la relazione tra la donna e il mondo islamico. In che misura lo è?
«Perché non riesco a rompere le mie catene per farne dei gioielli? Perché il mio corpo è una tale vergogna, che vado proclamando il velo come un diritto e una libertà?». Questi versi spiegano il dilemma femminile. Esistono due possibilità per una donna: ridursi alla sottomissione affermando la superiorità maschile o accettare la propria inferiorità come una verità religiosa. Se vogliamo guarire da questa malattia dobbiamo smetterla di mentire a noi stessi e al mondo con il pretesto dell’identità culturale, accettando, prima di tutto, la nostra ostilità verso il desiderio sessuale e i bisogni del corpo.

«Sogno di essere tunisino». L’articolo (contenuto in «Le mie indipendenze») è del 2011, quando la Primavera araba stava fiorendo. Cos’è rimasto dopo quasi sette anni?
Le rivoluzioni non sono ancora concluse. In Occidente, i cambiamenti hanno richiesto secoli, ma dal mondo arabo si pretendono risultati in un weekend. Le rivoluzioni però resistono e vanno perpetuandosi in modo diverso da un paese all’altro. Il mondo arabo è cambiato e muterà ancora.

Ne «Il caso Mersault» riscrive «Lo Straniero» di Camus dal punto di vista del coprotagonista arabo. Perché lo ha fatto?
Lo straniero è una detective-story metafisica con la confessione del delitto, nome dell’assassino, circostanze dell’omicidio, processo e verdetto. Ma senza accenni al cadavere. La versione dell’arabo doveva essere scritta, prima o poi; era una necessità narrativa, oltre che personale: dare un nome alla vittima. Per piangerla. Forse, lo scopo recondito del mio romanzo era seppellire, una volta per tutte, il retaggio postcoloniale.

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