Gli spazi letterari non sono mai semplici palcoscenici per le azioni dei protagonisti. In Universe of the Mind Jurij Lotman nota come l’utilizzo della geografia in letteratura funzioni spesso come una sorta di etica implicita, mentre in Atlante del romanzo europeo Franco Moretti, riflettendo sui rapporti tra spazio e intreccio, scrive: «nel romanzo moderno, quello che accade dipende strettamente dal dove esso accada». I mondi immaginati dell’utopia e della distopia sono solo gli esempi più manifesti di come l’ambientazione giochi un ruolo fondamentale nella costruzione del romanzo, ma già la semplice riproduzione letteraria del territorio (sia esso reale o meno) implica un processo di significazione che rende lo spazio un elemento centrale all’interno delle dinamiche narrative. La storia della letteratura abbonda di cartografie fantastiche e sterminate nelle quali generazioni di lettori si sono abbandonate all’immaginazione: la Terra di mezzo di J. R. R. Tolkien, l’universo epico-fantascientifico di Frank Herbert, il Tutto-mondo della serie La torre nera di Stephen King.

Le ambientazioni (im)possibili esercitano da sempre un grande fascino, ma – come dimostra Annalena McAfee in Ritorno a Fascaray (traduzione di Daniele Petruccioli, Einaudi, pp. 618, e 25,00), anche una più plausibile (e microscopica) isoletta può trasformarsi in un potente magnete per la fantasia. Riproducendo come in un diorama tutte le peculiarità del territorio scozzese, con le sue torbiere, i loch e le falesie a picco sul mare, Fascaray si presenta da subito come una sineddoche per l’intero stato; e anzi, attraverso una storia assurdamente complessa e travagliata per un luogo tanto piccolo e dimenticato, l’isola diviene quasi la versione iperreale della Scozia. Qui sbarca (o si rifugia) Mhairi McPhail, ricercatrice canadese le cui radici affondano nel microcosmo di Fascaray.

Dallo scots al gaelico locale
Come ogni buon accademico anche lei è pedante, ossessiva e tendenzialmente nevrotica: lasciatasi alle spalle New York e un amore fallito, trascina con sé la figlioletta Agnes nel tentativo di approfondire la figura semi-leggendaria del poeta Grigor McWatt, bardo locale recentemente scomparso e figura di culto per i nazionalisti scozzesi. Se è vero che l’unica patria è la nostra lingua, il cosmopolitismo esibito di Mhairi McPhail, con le relative considerazioni sull’accento affettato e camaleontico che utilizza, può anche essere letto come una alienazione radicale da ogni luogo, quella che György Lukács avrebbe definito «spaesamento trascendentale». Fascaray, allora, diventa anche un antidoto alla globalizzazione straniante dei nostri giorni, il modo per ricomporre i frammenti sparpagliati dell’esistenza e ricostruire un senso d’identità in un periodo di crisi personale.

Le riflessioni sulla lingua, sempre strettamente legate alla geografia e all’appartenenza, occupano un ruolo centrale all’interno del romanzo. Grigor McWatt, infatti, autore di una cocciuta opera di contro-colonizzazione lunga una vita, si è dedicato alla riscrittura (o «rifigurazione», come la definisce) di un grande numero di capolavori della poesia mondiale, concentrandosi soprattutto sugli odiati vicini inglesi. La Terra desolata di T. S. Eliot diventa lo Scolo de’ morti, la Ballata del vecchio marinaio di Coleridge una Saltiata del vecchio catramato, e l’Ode a un usignolo di John Keats si trasforma in Ode a un filomelo.

Nell’originale le poesie di McWatt appaiono in una mescolanza di varietà dello scots, la lingua regionale parlata da più di un milione di persone e inserita dall’Unesco nella lista degli idiomi a rischio. Con una scelta di traduzione davvero ammirabile e riuscita, Daniele Petruccioli rende queste riscritture in un linguaggio del tutto inventato, che mostra però evidenti debiti nei confronti delle radici greche, latine e dialettali dell’italiano. A questa si aggiunge l’inglese correntemente parlato dai personaggi e il gaelico scozzese, in una complessa mescolanza che riproduce elegantemente la sensazione di familiarità e straniamento vissuta dalla protagonista.

Il tocco finale della polifonia
Il plurilinguismo del romanzo è per di più esaltato dalla sua forma radicalmente ibridata. Ai diari e ai saggi accademici di Mhairi McPahil e alle poesie e agli articoli giornalistici di Grigor McWatt, la storia di Ritorno a Fascaray aggiunge il monumentale Fascaray Compendium, uno zibaldone interamente dedicato all’isola, di cui è autore lo stesso McWatt.

È in quest’opera nell’opera che la geopoetica di Annalena McAfee si realizza compiutamente, con piccoli vocabolari specifici («Inventario di parole scozzesi per descrivere neve», «Inventario di parole ed espressioni scozzesi per descrivere tristezza e depressione»), elenchi zoologici e botanici e pagine di storia e cultura locale filtrate attraverso la voce rude e patriottica dello scontrosissimo poeta. Grazie alla sapienza con la quale l’autrice dirige il coro di voci interne al romanzo, sembra quasi impossibile credere che Fascaray sia inesistente: ognuno dei dettagli che compongono questo piccolo mondo è ingrandito e vivificato al punto da fare ulteriormente sfumare i già labili confini tra reale e immaginario, fornendo al genius loci della minuscola isola la magnitudine di un vero e proprio continente. Brillante tocco finale di questa polifonia, le appendici nelle quali McPhail inserisce i ringraziamenti fittizi ai personaggi che hanno aiutato le sue indagini, un glossario di termini scozzesi, una bibliografia minima che mescola giocosamente saggi e articoli realmente esistenti alle opere di e sul poeta fascaradese, una piccola collezione di ricette locali e lo spartito di A Fascaray, canzonetta patriottica composta da McWatt – un vero e proprio trionfo di metanarrazione a cavallo tra l’accademico e il più propriamente letterario.

La struttura eterogenea e ampiamente articolata nulla toglie al piacere immediato della storia, che, attraverso un intelligente e progressivo svelamento delle origini misteriose del bardo caledone (condite dall’inevitabile amore tormentato che corre parallelo a quello della protagonista) e attraverso la leggerezza solo apparente dei fatti narrati, iscrive con grazia il romanzo nel dibattito europeo contemporaneo sulle identità nazionali e sugli indipendentismi di ogni sorta.

Quel che si chiama «casa»
Nell’era della Brexit, delle secessioni e delle migrazioni, Ritorno a Fascaray ci ricorda, in maniera decisamente sofisticata, come patria e identità siano anche categorie della mente, che si costruiscono attraverso un lungo lavorio di avvicinamenti e allontanamenti, in momenti alternati di alienazione e familiarità, nell’oscillazione perpetua tra il perdersi e il ritrovarsi. E ribadisce il diritto di ciascuno a scegliere l’identità che più gli si addice, a dispetto di confini e stereotipi, per potere chiamare casa qualunque posto dove vivere in libertà.