«La poesia è un lavoro e in quanto tale ha bisogno di essere presa in considerazione nella sua storia e tradizione, e anche nella sua destinazione sociale». Dette così le parole del poeta Giorgio Luzzi sembrano appartenere ad un impianto programmatico quasi politico e esterno ai versi. Ma attenzione: ci troviamo sempre di fronte «al più visionario dei poeti italiani», come ha scritto di lui Giovanni Raboni. Visionario anche e soprattutto con questa auto-antologia Da che mondo. Poesie 1976-2016 (ed. Sedizioni pp.215 euro 22), con una pregevole post-fazione critica di Rodolfo Zucco. In genere, le auto-raccolte che i poeti fanno dei propri versi rasentano l’erezione di un monumento in vita. Raramente si presentano come libro aperto e si offrono come officina, al lettore necessario, ogni volta chiamato in causa ad essere partecipe e complice. È il caso di questo libro di poesie nuove, fuse insieme a quelle rivisitate che Giorgio Luzzi dispone come sorprendente laboratorio artigianale.

SEMBRANO VERSI d’occasione, da cronaca, da evento, da cerimonia; in una attitudine materiale a rincorrere le misure del tempo. In realtà, con la novità di una grazia assoluta che si organizza nel rigore della metrica, ogni poesia va come a sostituire il reale proponendo la perdita dell’ansimare ansioso, dello stato di necessità e calamità. Tornando a riproporre ragione e amore. Ma non apparecchiando un automatico simulacro che prenda il posto della realtà, ma un conflitto aperto, fino a consistere come pezzo lavorato a caldo, epifanico nelle parole che scoprono il mondo del tempo presente – e quello dei defunti – come fosse la prima volta.

Non a caso, dunque, il nuovo libro di Giorgio Luzzi si manifesta proprio con un richiamo alla tradizione trobadorica, alla lirica medioevale dell’Alba, con la Chanson d’aube che apre la prima sezione Sul nascere: «Gazze mi fanno scudo e tortore e piccioni/ gli avidi suoni che forano il mattino/ i proclami che inondano il cuscino./ Ma qui dentro la lettera che scrivo c’è un uomo solo/…».
Sono versi d’incipit che introducono al tema centrale di ogni componimento: quello della luce che resta dentro il buio generale. In una forma che fortemente è connotata da uno stile epigrammatico, ironico, sferzante, così pervicacemente ancorato a una richiesta di appartenenza che alla fine viene indirizzato, in una sintassi affettiva, in primo luogo contro se stesso e la stessa istituzione poetica. Come nel finale in Grama beltà del corpo. Te ne viene: «Al diktat d’una dubbia primavera/ si spoglia una scorza di luce/ un pezzo impercettibile, un po’ prima,/ il più debole dei vènti ci ammala./ Rimarrebbe l’extremis della rima/…», oppure nei primi versi di Evaporazione pilotata: «Mi dicevano Scrivi sotto sforzo,/ ricevi le stagioni dell’inchiostro, versa/ nel motore del pathos la tua sigla/…»; e soprattutto in Malintesi, la prima vera poesia di Da che mondo: «Non so che cosa altri abbiano in mente/ Certo qualcosa gli frulla nelle stime/ Ma qui il problema è capire chi mente/ Se loro che non vedono le guerre/ O noi che andiamo in guerra con le rime». Se dunque è ironia, il poeta si accomuna al lettore-interlocutore. Con lui convive in una forma di ironia pietosa o di pietà ironica.

PARTE COSTITUTIVA del lavoro di Giorgio Luzzi, come ricorda nel saggio conclusivo Rodolfo Zucco è, nell’amore e nella grazia riversato sul mondo, la passione intesa come «studio», desiderio e conoscenza. E questo per tutte le sezioni proposte e selected, da Quante storie, alla plaquette rara L’ospite presunto, al remoto Epilogo occitano, al più recente Troppo tardi per Santiago; dove è disperso come seme un fitto lavorìo di scarnificazione e reinvenzione del lessico letterario raro (leggieramente, enfio, macula, cortile lacuale, zazzera sciampagna), insieme alla provocazione dei neologismi (zonzoronzare, filastrappa, adorovazioni, mozzafiatico, violentàme, claustroguscio). Perché, ha scritto Giorgio Luzzi sul dovere della poesia nella Nota d’autore ai Disgeli, dove insiste sul «carattere utopico» dei versi: «…per questo nostro genere… la vitalità della lingua, dell’esercizio della critica, della disobbedienza al messaggio standardizzato, vuoto e sempre più impoverito, che sembra puntare alla universalità mentre in realtà serve a soffocare il senso delle identità soggettive poste in guardia e possibilmente predisposte alla solidarietà».

CERTO LA POESIA è oscura, ma quel buio, ha ricordato Franco Fortini, è l’habitat necessario alla pratica dei versi. E vale la pena tornare a interrogarsi proprio su questo ritorno del trobar clou, del verso chiuso apparentemente in se stesso, con le parole di Roberto Roversi che, commentando la poesia italiana degli anni 80, scriveva: «…Se non sia in atto, più generalmente, una migrazione linguistica che trasferisce il linguaggio del cuore in strutture chiuse e scure per cercare di recuperarne i palpiti consumati dall’usura di secoli di bellissimo esercizio e servizio…».
Ma che l’oscurità non sia poi anche quella dei tempi che ci è dato vivere? Come in Sconnesso reperto comunardo: «(…) ma quanta e quale cleptocrazia in questa Europa che viene/ E che prezzo vorace di ademocrazia ci dispoglia le vene…/»; o nel Canto dei raccoglitori di pomodori: «Gran ghettò burkinabé/ umani attrezzi tre e cinquanta al dì…/»; e ancora, straordinario, in Micritudine: «Attenti all’onore, Pas-de-Calais./ Attenti al furore, Pas-de-Calais./…/Lui ha una scheggia di specchio in cui si rade/ Alla gendarma si presenterà lisciamente…». Una «oscurità» che gli permette, dentro il tempo storico, di vedere in Guernicana, tra le macerie e le vittime della strage opera degli Stukas nazisti una nuova nascita: «…Il bimbo appare ripiegato all’ingiù/ in un frufru di piedini/ quasi uccelletto in ghingheri per un tarlo assopito/…». Aprite il cuore alla lettura di Giorgio Luzzi.