«È vero che di solito preferiamo l’illusione e la magia al duro compito di pensare – e che la mezza verità è il punto in cui ci fa comodo smettere di provarci». È il 1986 e Iris Murdoch ha già al suo attivo ventidue romanzi – ai quali se ne aggiungeranno negli anni successivi altri quattro – una silloge poetica, dei dialoghi e numerosi saggi filosofici. Figura di straordinario fascino, possiede il doppio passo della filosofa e della letterata. Due istanze mantenute e vissute attraverso il pensiero e la scrittura, con forza e desiderio. Nel 1997, due anni prima della sua morte, venne pubblicato a Londra Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy and Literature, volume di saggi, lunghe recensioni e dialoghi scritti da Murdoch tra il 1950 e il 1986. Tradotto per la prima volta otto anni fa da Egle Costantino, Monica Fiorini e Fabrizio Elefante, è uscito per Il Saggiatore, a cura di Peter Conradi con la prefazione di George Steiner e l’importante introduzione di Luisa Muraro. Ormai fuori commercio, la seconda edizione di Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura (Il Saggiatore, pp. 514, euro 23), immutata nel suo contenuto e nella composizione editoriale, rende nuovamente disponibili i preziosi contributi teorici. Suddiviso in sette parti, affronta i rapporti complessi fra filosofia e letteratura, concentrandosi inoltre sulla politica, il linguaggio, l’etica e la metafisica, approfondendo anche l’incontro di Murdoch con Sartre, l’esistenzialismo, Wittgenstein e il misticismo pratico.
A Luisa Muraro, ospite al Festivaletteratura di Mantova, abbiamo posto alcune domande riguardo il percorso della scrittrice.

La ripubblicazione del volume «Esistenzialisti e mistici» si inserisce nell’interesse intorno a Iris Murdoch. Traduzioni italiane inedite (come nel caso del suo romanzo «The Flight from the Enchanter», pubblicato di recente per Il Saggiatore con il titolo «L’incantatore») e riedizioni. Come mai adesso?

Iris Murdoch è arrivata in Italia prima con i romanzi (tradotti da Feltrinelli) e solo dopo con i saggi filosofici. In passato lei ha avuto molto più successo con i romanzi, eppure è stata una pensatrice originale e contro-corrente; andava contro i dogmi della filosofia analitica delle università che frequentava (Oxford e Cambridge) e non era seguace di filosofie europee continentali. E si terrà sempre a distanza dal post-strutturalismo.
È stata una filosofa morale che teorizzava la sovranità del bene sopra gli altri concetti, cioè portava qualcosa che a suo tempo non aveva udienza nel suo ambiente intellettuale. Come filosofa è arrivata in Italia non prima di dieci anni fa. Per molti aspetti, quindi, lei torna che è nuova. A suo tempo, i suoi romanzi vennero interpretati seguendo la cultura della sinistra politica, come ispirati alla critica della società borghese, che è una lettura non errata ma fuorviante. I suoi romanzi infatti sono radicati nella realtà sociale ma la attraversano per assumere piuttosto il valore esistenziale e metafisico di una ricerca del vero e del giusto, affidata ai personaggi e, di solito, fallimentare. L’interesse recente per la filosofa credo che sia l’onda lunga di un interesse che parte dagli Stati Uniti. Ma vivo anche in Italia: dal 20 al 22 febbraio Roma Tre ha ospitato la prima conferenza internazionale su Iris Murdoch in Italia (dal titoloIris Murdoch and Virtue Ethics: Philosophy and the Novel); ricordiamo poi l’ultimo numero della rivista on-line Etica e politica a lei dedicato.

Nella sua introduzione a «Esistenzialisti e mistici», viene segnalato lo stralcio tratto da una lettera che Murdoch indirizzò nel gennaio 1943 al suo amico Frank Thompson. Vi confessava che aveva bisogno di scrivere, perché quella è l’unica attività in cui si sente «essere». E Murdoch ha scritto moltissimo. Lei parla di scrittura in-finita, cosa intende?

Esplorava la vita interiore attraverso la scrittura, che non è stata solo dedicata ai romanzi e ai saggi, ma anche a lettere e diari – questi ultimi sono serviti a ricostruire la sua biografia. La sua scrittura è in-finita perché appunto è esplorazione della vita interiore (inner life), intesa come sconfinamento lontano dall’Io (l’Io sarebbe una specie di potente parassita dell’interiorità). Penso che in questo Murdoch sia proprio una pensatrice, che rende conto di esperienze che sono più note alle donne che agli uomini. Conosce il movimento verso l’interno che da dentro fa andare nel mondo e oltre. I suoi saggi fanno qua e là dei riferimenti alla mistica, e di mistica si tratta anche in alcuni romanzi, sobriamente. Secondo la grande mistica medievale, che Murdoch molto probabilmente non conosce (a parte l’inglese Giuliana di Norwich), dall’interno di noi si arriva a Dio e viceversa, cioè dall’interno di noi arriva e abita in noi Dio, l’assoluto, l’infinito. La lingua che noi parliamo è infinita. Perché con un numero finito di regole e di termini noi possiamo parlare di tutto. Questo prodigio simbolico è quello che fa l’infinito.

La vita interiore, il valore del racconto, l’incompiutezza delle cose umane sono alcuni dei temi principali della ricerca filosofica di Murdoch insieme ai tratti in comune con Simone Weil, per esempio l’attenzione e la contemplazione. Eppure l’importanza di Weil nel suo pensiero è stata notata poco: è così?

È esattamente così. Io l’ho notato e sottolineato ma non c’è stato un seguito. Solo nel recente numero di Etica e politica, curato da Riccardo Fanciullacci, al quale accennavo prima, Francesca Catteneo ha ripreso questo tema. È nei suoi stessi testi che Murdoch dice di avere un debito con Simone Weil, così come il nome della filosofa francese ricorre diverse volte nei suoi diari. L’ispirazione che ha preso da Weil è di una profondità che diventa difficile renderne conto. Se posso parlare di me, io stessa non ho reso abbastanza conto ciò che ho preso da Luce Irigaray, perché l’ho interiorizzato, nel mio caso attraverso il lavoro di traduzione.
Torniamo a Iris Murdoch. I temi elencati sono tutti cruciali; l’attenzione verso l’altro, il lavoro dell’attenzione e la sovranità del Bene. Tutti temi che sono importantissimi anche in Simone Weil. Come, per esempio, quello del rapporto tra questo mondo e il soprannaturale, che è un contatto reale invisibile, sentito nella domanda di giustizia e di amore. Sono temi di Weil che in Murdoch lavorano e la portano a elaborazioni e posizioni originali. Simone Weil non riscuote grande successo tra gli accademici. Lo dice Giancarlo Gaeta, lo penso anch’io.
Weil non è appropriabile né dalla tradizione cattolica né dalla tradizione marxista. Non ha parentele né con una né con l’altra, eppure lei ha parentele più personali e potenti con Karl Marx e Gesù Cristo ma gli accademici queste parentele impegnative non sanno come trattarle.

Il volume di Murdoch si apre con una conversazione tra la filosofa e il giornalista Bryan Magee (trasmessa per la prima volta dalla televisione inglese il 28 ottobre 1977) intorno alla relazione fra filosofia e letteratura. A un certo punto dice: «Personalmente, provo un orrore viscerale davanti alla possibilità di inserire teorie, o idee filosofiche, nei miei romanzi». Ciò che invece risulta dalla sua produzione letteraria sembrerebbe un po’ confermare il contrario, perché i suoi romanzi non sarebbero stati gli stessi se lei non fosse stata filosofa…

Questo che lei pone è un grande problema. Io non sono riuscita a risolverlo. L’affermazione che fa nell’intervista va accettata: i suoi personaggi lavorano nella loro interiorità e nei loro rapporti per capire che cosa è giusto, che cosa è vero, se vivono nella realtà o nell’irrealtà… Dunque, si pongono questioni che lei affronta filosoficamente, ma non le portano a conclusione, come fa Murdoch con la riflessione filosofica. Sono sempre alla ricerca di sé in una maniera problematica e, a volte, quei personaggi possono essere molto frustranti.
Secondo Murdoch, un vero autore con i suoi personaggi è come Dio con gli uomini, li crea liberi e li deve lasciare altrettanto liberi. Mentre il suo pensiero e i suoi saggi filosofici approdano a posizioni importanti e forti, per esempio che la bontà è realismo, i suoi personaggi il più delle volte non ci arrivano. Alcuni giungono nelle vicinanze, altri si perdono. Qualche volta riescono a volersi bene, che è la cosa sempre fondamentale per Iris Murdoch, privilegio che lei consegna di preferenza ai personaggi minori.
Quindi non sembra che ci sia continuità tra i romanzi e la filosofia. Sono come i due versanti di un monte, ci sono acque che corrono di qua e acque che corrono di là. La materia prima, però, è la stessa, scavata con il lavoro della scrittura.

Forse i versanti sono entrambi necessari. Possono essere considerati come due facce dello stesso desiderio di orientamento che lei avvertiva?

In Murdoch si congiunge qualcosa che per gli esseri umani in questo mondo non può congiungersi. Lei stessa parla di una sintesi misteriosa che non è certo quella hegeliana ma la ricerca della congiunzione del vero, del bello, del giusto, ricerca che si sviluppa con il lavoro dell’immaginazione da una parte, e quello della prosa ragionante dall’altra.

Nella sua esperienza di lettrice quelli di Iris Murdoch sono romanzi realisti minacciati dall’irrealtà…

È un tema centrale: il rischio di vivere nell’irrealtà, la lotta per salvare il senso della realtà. Secondo lei, siamo influenzati da condizioni materiali, storiche, ideologiche che ci fanno pensare in una modalità o in un’altra, ma per Murdoch ciò che davvero ci condiziona sono essenzialmente le illusioni che nutriamo per stare al mondo.
Lo pensava anche Giacomo Leopardi, che in nome di questo bisogno di illuderci, salvava l’arte ma anche la religione. Iris Murdoch distingue tra l’immaginazione, che genera bellezza e amore, dalla fantasia, che condanna come ingannatrice, per cui si cade nell’irrealtà. Percepisce acutamente una deriva che è la nostra, cioè finire in un mondo dove tutto tende a essere finto.

È per questo che Murdoch può dire qualcosa di importante anche sulla complessità del nostro presente?

È stata una anticipatrice. Intanto concentrandosi sull’attenzione all’altro congiunta con l’esplorazione della propria vita interiore. Questi sono i due poli del movimento per appropriarsi del senso della realtà che altrimenti noi rischiamo di perdere.

Nella sezione intitolata «Nostalgia del particolare (1951-1957)» c’è un intervento che Murdoch ha letto a Londra il 9 giugno 1952 per l’incontro della Società Aristotelica. Qui arriva a uno dei suoi punti centrali: l’esperienza. Cosa succede alla filosofia, non solo per Iris Murdoch ma anche per lei, quando crede di poter rinunciare all’esperienza?

Il richiamo alla forza dell’esperienza è qualcosa che nessuna scienza e nessuna filosofia può invalidare. Mi piace ricordare che il movimento femminista nelle sue stesse origini aveva – nei gruppi di autocoscienza – questo richiamo forte alla esperienza come mia esperienza. Qualcuna, dentro al femminismo statunitense, aveva suggerito di saltarla, ma ricorrere alla propria esperienza – anche senza strumenti critici o teorici – ha una qualità politica di prim’ordine.
Iris Murdoch ha avuto il merito di mostrarlo fin da subito.