Ciò che racconta è già nel titolo: Arrival, l’ «arrivo» sul vecchio pianeta Terra di dodici misteriosi oggetti alieni la cui forma ricorda le pietre sull’Isola di Pasqua. Chi sono, cosa vogliono? I governi terrestri sembrano impazziti mentre ovunque si scatena il caos: coprifuoco, emergenza, leggi speciali, saccheggi, violenze. Louis Banks (Amy Adams) è una linguista, ha perduto l’amata figlia ancora ragazzina uccisa da un cancro, il governo americano si è già rivolto a lei mettendola da parte perché nelle sue traduzioni non menzionava la parola «guerra», ciò che in quel momento (vedi l’Iraq) serviva. Gli alieni parlano, sono suoni incomprensibili, chi meglio di lei può decifrarli? Lavorerà insieme a un grande studioso di formule matematiche (Jeremy Renner), due visioni diverse e complementari del mondo, scienza e lingua, con cui decifrare una cultura sconosciuta.

L’inizio del nuovo film di Denis Villeneuve (dal racconto di Ted Chiang, Storia della tua vita) è quello di ogni fantascienza; l’invasione (forse) del nostro pianeta e la presenza extraterrestre che appare dopo un grande dolore. Però già dalle prime sequenze il regista di Sicario dissemina qualche variazione, al racconto lineare preferisce una oscillazione nel tempo e nello spazio che ne annulla le coordinate proprio come fa la lingua degli alieni, segni circolari (che ricordano quelli degli antichi calligrafi) al cui interno sono contenuti più parole e più significati. Cosa cercano di dire agli umani che invece si agitano inevitabilmente programmati al terrore dell’altro, alle armi, alla guerra?

«Language is a virus» diceva tanti anni fa in una sua composizione la giurata Laurie Anderson. E l’arma, che esperti della Cia e colonnelli smarriti (Forest Whitaker) come capi di governo cattivissimi – russi e cinesi ovviamente, siamo dalle parti dell’America – gli alieni dicono di voler dare è proprio quella di un linguaggio universale (che poi che i cattivi siano sempre gli altri in questa storia è un po’ una caduta di tono…) nel quale comprendersi e trovare un’armonia di accettazione dell’altro.

La lingua che cambia il modo di guardare le cose, e inventa nuove prospettive: una sorta di pacificazione che comprende il tempo e ne annulla le divisioni: passato, presente, futuro tutto convive in un unico cortorcircuito della mente, nell’attimo del sogno e del rimpianto, del vissuto e di ciò che rimane da vivere.

«Cosa faresti se potessi vedere tutto quanto accadrà nella tua esistenza?» chiede la linguista allo scienziato. Amarsi, perdersi. Ma loro sono gli unici che di fronte all’alieno tolgono la tuta anti radiazioni spinti dalla passione della ricerca e della scoperta che cozzano contro media, rozzezza militare, strategie belliche.

Il futuro, lei ha la capacità di vederlo, anticiparlo, avanti e indietro, una dimensione temporale che sborda, procede per detour e deviazioni – come il cinema, come una storia della quale si possono rivedere le ipotesi, cambiare i passaggi. Potrebbe essere ’ incredibile e terrificante insieme, scoprire che ne sarà di chi si ama può fare molto male.

Nell’incontro stampa Amy Adams ha definito il film di Villeneuve – che sul Lido non è arrivato – «molto femminile». E la sua origine è lì, in quella paura, la più grande per una madre di perdere un figlio, di vederlo ammalarsi, morire, di pensare che potrebbe accadergli qualcosa, come anche di vivere i suoi cambiamenti: ti amo che diventa ti odio. È questa paura profonda, viscerale l’origine di questa fantascienza, che ricorda il Jeff Nichols di Midnight Special, lì erano le angosce di un padre verso un figlio «speciale» perciò in pericolo, qui è una madre, di una figlia che ha una rara malattia. È vero? È già accaduto? Potrà succedere e per questo si deve rinunciare? Ci sono i frammenti di una bambina, poi adolescente morente nella testa di Louise la linguista che fa fatica però a spiegare alla figlioletta perché il padre è andato via. L’eterno enigma del sentimento quotidiano. Una scommessa, come la vita.