Fino a oggi l’Expo di Milano, che aprirà i battenti nella prossima primavera, ha attirato l’attenzione del pubblico italiano e internazionale per gli episodi di corruzione legati alla costruzione dei suoi edifici e spazi espositivi. Poco o nulla sui contenuti che dovrebbero animare la mostra. Eppure l’Expo dovrebbe riguardare, oltre al cibo, l’agricoltura, problema rilevantissimo in tempo di crisi. In questo 2015, che sarà l’anno del suolo, si dovrebbe anzi ricordare che non c’è agricoltura senza terra. E qualcuno ha cominciato a farlo, prendendo sul serio l’occasione dell’Expo per rendere popolari questi temi presso il largo pubblico e le nuove generazioni.
A gennaio, a Firenze, su iniziativa di Vandana Shiva, l’associazione Navdanya international, presieduta da Caroline Lockart, ha organizzato un seminario sul tema del suolo, con studiosi di varie discipline e nazionalità. L’incontro aveva una finalità editoriale: preparare un Manifesto – simile a quelli sui Semi, o sulla Conoscenza, che negli anni passati sono circolati a Terra madre, a Torino – intitolato Terra viva. Il suolo come bene comune.

Il dibattito di questi giorni ha fatto emergere un originale quadro interpretativo dell’attuale stato di disordine dell’economia mondiale. L’economia, non soltanto quella agricola, si fonda su un originario misconoscimento: il suolo è valutato come un contenitore vuoto che si può riempire a piacimento. Ma esso è un organismo vivente, è un ecosistema su cui si basa la vita sulla terra. Un bene scarso e non facilmente rigenerabile e distribuito in modo diseguale. Lo sanno milioni di contadini nel mondo che ne hanno troppo poco per sfamare i loro figli, che se lo vedono sottrarre dalle attività minerarie o dall’avanzare del cemento. In Italia ce ne rammentiamo quando le alluvioni sconvolgono città e territori ricordandoci che le piante proteggono dall’erosione, che i campi verdi sono spugne che assorbono la violenza dell’acqua piovana. Ma i successi dell’agricoltura industriale hanno creato l’illusione dell’onnipotenza tecnologica. Le alte rese che si sono realizzate nelle agricolture occidentali, soprattutto a partire dagli anni 50 del Novecento, hanno radicato l’idea che tutto è possibile, indipendentemente dal suolo, dalla natura e dai suoi equilibri.

Anche il favore di cui godono le piante Ogm presso alcune figure ed ambiti scientifici è fondato su questa illusione tecnologica. Eppure abbiamo dati che mostrano la fragilità di questa presunzione. I successi dell’agricoltura industriale, l’abbondanza di cibo a prezzi contenuti delle nostre società opulente sono solo in parte dovuti all’innovazione tecnologica. O per meglio dire, l’innovazione tecnologica è parte di un paradigma più complessivo in cui il ruolo gigantesco che svolge la natura viene cancellato. Pensiamo all’innovazione genetica nel campo dei semi. Come ha ricordato di recente Emanuele Bernardi ne Il mais “miracoloso” (Carocci, 2014), grazie al piano Marshall gli Usa introducono in Italia e nelle campagne europee i semi di mais ibrido, che hanno successo per la loro elevata produttività, Quel mais, naturalmente, metterà ai margini e farà scomparire tutte le varietà locali, con i loro caratteri speciali, e soprattutto costringerà gli agricoltori a comprare ogni anno i semi per la semina. Ma il successo del mais ibrido non è merito esclusivo dell’innovazione genetica.

I raccolti più abbondanti si ottengono se si usano abbondantemente i concimi chimici, l’acqua, poi i pesticidi, i diserbanti che le corporation americane produrranno con ritmo crescente trovando nelle campagne europee un mercato sterminato. I semi ibridi sono stati il cavallo di Troia per scalzare un modello secolare di agricoltura. Ma ciò che è rimasto a lungo nascosto è che il miracolo dei semi era dipendente dal crescente uso della concimazione chimica. Lo storico francese Paul Bairoch, ha ricostruito le stupefacenti cifre statistiche che svelano l’arcano della nostra prosperità alimentare. Tra i primi del 900 e il 1985 i rendimenti del grano sono cresciuti nei vari paesi d’Europa di 3 o 4 volte. Ma nello stesso periodo il consumo di fertilizzanti chimici nelle campagne della Germania è aumentato 9 volte, 17 volte in Italia, 20 in Spagna, Quella fertilità non veniva dai suoli d’Europa, ma dai fosfati estratti in Marocco o nelle isole del Pacifico, dall’azoto prodotto industrialmente col petrolio pompato in qualche angolo del mondo. L’intero modello della nostra economia estrattiva, lineare, che consuma una volta per tutte, senza nulla restituire alla terra, è nelle poche cifre fornite dal geologo americano D. A. Pfeiffer nel saggio Eating fossil fuels (2006).
Negli anni in cui si realizza la cosiddetta rivoluzione verde, tra il 1950 e il 1985, la produzione mondiale del grano conosce un incremento che sarebbe sciocco non considerare senza precedenti. Essa aumenta del 250%. Ma il consumo di energia fossile negli stessi anni tocca un picco di aumento del 5.000%. L’incremento di produzione e l’innovazione tecnologica di tutto il settore (concimi, macchine, pompaggio dell’acqua, diserbanti, pesticidi) si sono fondati su un consumo gigantesco di energia, sulla dissipazione di risorse non rigenerabili del suolo e del sottosuolo.

Tale economia lineare svela oggi i suoi limiti e annuncia le sue minacce. Il suolo fertile comincia ad apparire scarso, scompare la falsa infinità della natura ed ecco esplodere il fenomeno del land grabing. Milioni di ettari di terra, dell’Africa, del Brasile, del Vietnam vengono accaparrati non solo dalla Cina, ma anche dagli Emirati Arabi, dalla Corea del Sud, dall’Arabia Saudita. L’eterno imperialismo si riaffaccia in nuove forme e alimenta scontri tribali, attentati, guerre. Oggi appaga il senso comune e l’ipocrisia dell’Occidente ricondurre i sanguinosi conflitti in corso alle divisioni religiose. Non solo si dimentica il fanatismo dell’Occidente, chiamato crescita, ma non si vuol vedere che quello sanguinario – speculare – è il travestimento ideologico con cui il mondo degli sconfitti dà senso alla sua ribellione. Il fondo nascosto delle guerre sta nel fatto che l’economia lineare avanza in forme predatorie. Lo sviluppo, la crescita economica, vanno divorando le risorse del pianeta e un numero troppo grande di uomini e donne ne riceve solo danni. La crescita della popolazione, nel quadro del sistema dominante, prepara conflitti di inimmaginabile violenza.
Occorre dunque rovesciare il paradigma, fondato sul successo dei risultati immediati e sulla cancellazione delle fonti originarie della ricchezza. La storia dell’economia contemporanea è infatti fondata su una successione stratificata di occultamenti. L’agricoltura nasconde lo sfruttamento dell’energia fossile alla base dei suoi successi produttivi, l’industria cela le immense quantità di materia e risorse trasformate in merci, la finanza mette in ombra l’economia reale esaltando la crescita dei suoi rendimenti virtuali. Ma l’intera economia nel suo complesso nasconde che il punto di partenza di tutto è la terra, il suolo.

Scopo del Manifesto Terra viva è dunque mostrare la via dell’economia circolare. La Terra è un sistema chiuso. Occorre restituire quello che le si sottrae. L’agricoltura non può continuare all’infinito a surrogare la fertilità del suolo con la concimazione chimica. Già essa contribuisce per circa il 40% al riscaldamento climatico. Mentre è noto che la conservazione della fertilità del suolo gioca un ruolo rilevante nella cattura del carbonio e dunque nella riduzione dei gas sera. Occorre incrementare la nuova agricoltura già all’opera, non solo in campagna, ma anche in città. Impiantare orti e alberi nelle aree dismesse, nelle periferie, nei terrazzi, nei giardini. E occorre riportare alla terra i residui della nostra cucina, gli scarti organici della vita cittadina, ridando fertilità senza ricorrere alla chimica. In questo esempio di economia circolare, aumento della fertilità e della ricchezza, risparmio energetico, diminuzione della dissipazione sono tutt’uno. Per questa via l’agricoltura biologica, fondata sulle piccole aziende, non è solo un settore economico che dà cibi più sani e rispettosi dell’ambiente, ma costituisce un frammento di economia circolare a cui tutti i cittadini possono concorrere, grazie alla selezione dei propri rifiuti, riconoscendosi – com’è stato per secoli per milioni di cittadini d’Italia e del mondo – come i fertilizzatori del suolo da cui proviene il cibo che essi non producono.