Il pellet è nato come sottoprodotto dell’industria delle segherie dove ogni taglio genera un 20% di segatura: si tratta di segatura che, sottoposta a pressione, emette un collante naturale, la lignina, che consente l’aggregazione delle particelle poi trafilate in piccoli cilindri della lunghezza di 5-30 mm: non contiene collanti o addensanti, se non un minimo quantitativo di farine vegetali che agiscono da lubrificante nei macchinari. Secondo la normativa è un «biocombustibile addensato» arrivato sul mercato da poco più di 10 anni per alimentare stufe automatiche ad alto rendimento (fino al 90%) che hanno il vantaggio di caricarsi automaticamente pescando il pellet da un serbatoio.

Il pellet prodotto dalle segherie per valorizzare uno scarto rientra perfettamente in una logica di economia circolare. Però il pellet sul mercato non è tutto uguale. Esiste in commercio pellet a basso costo, senza certificazioni, ottenuto da legname non vergine di varia provenienza che può contenere residui di impregnanti e vernici del legno, non garantisce una combustione ottimale, oscura il vetro della stufa, ostruisce il crogiolo e la canna fumaria, e produce un carico di polveri sottili anche peggiore del carbone.

Quindi è bene indagare su provenienza e qualità del pellet. Da dove arrivano i 2,7 milioni di tonnellate di pellet che importiamo per alimentare le nostre stufe? L’Austria è il nostro principale fornitore (590mila t), seguito da Croazia (150mila t) e Germania (140mila t). Altre 700mila t. arrivano da vari paesi europei (tra cui i paesi Baltici, grandi produttori di pellet, Russia e Polonia), e 355mila t. arrivano dal resto del mondo, avendo importatori che lavorano con Brasile, Canada, Stati Uniti, Cile, Messico, Egitto, Tunisia. A conti fatti, però, come risulta dai dati Eurostat, e come scrive anche Bioenergy Europe nel suo rapporto 2018, mancano all’appello circa un milione di tonnellate.

Evidentemente si tratta di pellet non certificato perché «quello certificato, in quanto tale, è tracciabile e quindi non può sfuggire ai conteggi, né può derivare da tagli illegali di foreste», ci spiega Marino Berton, direttore generale di Aiel (Associazione italiana energie agroforestali). Sul perché l’Italia non ne produca di più, Berton lamenta il progressivo abbandono dell’industria primaria del legno e dunque la mancanza di segherie abbastanza grandi per generare masse critiche per produrre pellet da contrastare con «una politica industriale evoluta che sarebbe così necessaria per dare lavoro alle comunità locali ed evitare lo spopolamento delle montagne», aggiunge Berton.

A livello globale, il 55% del pellet prodotto finisce nelle stufe domestiche, mentre il restante 45% viene utilizzato nei grandi impianti di produzione di energia elettrica. Il primo paese per consumi è la Gran Bretagna che ha riconvertito a biomasse alcune centrali a carbone. La gran parte delle biomasse in forma di pellet o cippato arrivano dall’altra sponda dell’Oceano, dalle foreste del sud est degli Stati Uniti (North Carolina e Georgia) dove il colosso del pellet Enviva sta minacciando l’integrità del patrimonio forestale di interi stati al ritmo di 54 ettari al giorno. Secondo le denunce di Dogwood Alliances e di un centinaio di docenti universitari statunitensi di tutto il mondo, gli incentivi europei alle biomasse stanno provocando disboscamenti illegali, tagli a raso di foreste a legno duro per trasformarle in monoculture di pini a crescita veloce. Un effetto collaterale allarmante degli incentivi alle biomasse, considerando che anche Giappone e Corea del Sud si stanno incamminando sulla strada della conversione a biomasse di grandi impianti a carbone, ponendo una seria minaccia alle foreste di Vietnam e Malesia.