Per l’Italia la Libia è ormai diventata il «porto del silenzio». Certo non è tragicamente il porto «sicuro» per i migranti che qualcuno qui si azzarda ancora a pensare perché la guerra intestina tra Tripoli e Bengasi è diventata sempre più vasta, è diventata una guerra di droni, di schieramenti militari e diplomatici per procura in cui brilliamo per un assordante silenzio. Se mai ce ne fosse ulteriore bisogno, stiamo perdendo ancora più credibilità.

Insistendo nel dare fiducia ai trafficanti di uomini di Tripoli, nella speranza che nessuno se ne accorga e gli italiani abbocchino alla missione di ieri del premier Conte in Ghana effettuata all’insegna dello slogan «aiutiamoli a casa loro». Intanto manteniamo sul campo un contingente a Misurata di oltre 300 uomini, ufficialmente a difesa di un ospedale ma probabilmente anche a fare altro, un po’ come accade con le forze speciali in Iraq, ferite recentemente in un’imboscata con un ordigno artigianale.

Il generale Khalifa Haftar ci ha appena inferto un’umiliazione dopo l’altra cui non abbiamo comunque saputo rispondere. Dopo avere abbattuto un drone italiano e uno americano, Haftar ha chiesto scusa agli Usa ma non a noi, anzi ci ha minacciato mentre circolavano foto di miliziani che danzavano allegramente sui resti del veivolo. Haftar poi ha pure bombardato ieri i miliziani alleati di Tripoli che andavano a difendere i pozzi di El Feel dell’Eni. Insomma ci prende a schiaffi.

L’abbattimento dei droni è stato un evento assai rilevante. Accompagnato nelle scorse settimane dallo schieramento in Libia dei contractor russi della Compagnia Wagner, società di mercenari che Mosca usa quando non si vuole sporcare le mani e che ha già impiegato anche in Siria e Ucraina. Gli Stati Uniti hanno accusato la Russia di speculare sul conflitto ma per non restare colti di sorpresa, dopo essersi sbilanciati sul governo di Tripoli, hanno mandato una delegazione da Haftar, che notoriamente è pure cittadino americano, in passato legato alla Cia – per ammissione della stessa Cia. «Un colloquio proficuo», ha twittato Matthew Zais, vice del Dipartimento dell’Energia che faceva parte della delegazione con Victoria Coates della sicurezza nazionale, l’ambasciatore Richard Norland e il numero 2 di Africom, il generale di brigata Steven deMilliano. Haftar ha quindi potuto negoziare con gli Usa su tutto, dal petrolio agli aspetti politico-militari.

E noi che facciamo? Ecco cosa facciamo. Ai primi di dicembre è previsto a Roma l’arrivo del ministro degli Esteri russoLavrov, in un primo momento accompagnato anche dal ministro per la difesa russo Shoigu intenzionato a incontrare i nostri vertici in vista anche della conferenza di Berlino sulla Libia. La nostra risposta nei giorni scorsi è stata: «Shoigu non ci interessa». Ora bisogna capire che cosa ormai ci interessa più del mondo, dato che gli americani trattano con Haftar e i russi ci hanno più volte offerto una mediazione con il generale.

Perché queste proposte? Haftar è stato esplicito nell’affermare di non volere la cooperazione con l’Italia mentre la Russia, che ha forti e storici legami con l’Eni, ritiene che gli italiani possano contribuire a stabilizzare la Libia e a limitare le pretese energetiche della altre potenze visto che proprio l’Eni continua a fornire l’80% dell’energia ed è una compagnia chiave per lo sfruttamento del gas nel Mediterraneo orientale.

E poi, soprattutto, perché chi non controlla il petrolio non controlla la Libia. Haftar ha le mani sui terminali nella Sirte ma non può esportare legalmente il suo greggio e dipende ancora dai proventi distribuiti alle milizie dalla Banca centrale. Inoltre, pur avendo insediato una sistema parallelo per la gestione dei dinari stampati proprio da Mosca, ha contratto una montagna di debiti con russi ed egiziani. È ovvio che i russi non fanno nulla per nulla e che agli americani potrebbe poi non dispiacere in Libia un dittatore come l’egiziano Al Sisi, in una sorta di condominio in cui a noi riserveranno, nel nostro assordante silenzio, i piani bassi. Forse le cantine.