«Mi dai tanti saluti a zia c. e digli che una notte mi in sognavo che per forza mi voleva far manciare i gniochi con li cieci mi sveglai e mi trovavo a Mautausen e passa il tempo e pure deve venire un giorno che li posso rimanciare». Il sogno del prigioniero italiano, lontano dal suo Abruzzo, rinchiuso alla fine del 1915 dagli Austriaci nel campo di Mauthausen (lo stesso luogo che, nella memoria delle tragedie europee, diventerà trent’anni più tardi uno dei più feroci Lager dello sterminio ebraico), è un mondo di Cuccagna, una madornale mangiata di gnocchi con i ceci.
Il campo di prigionia torna ad essere, in miniatura, quel «paese della fame» che, come mostrò Piero Camporesi nel suo libro del 1978, da sempre coltiva utopie maccheronesche. Le «pancificae Musae» di Teofilo Folengo promettevano a Baldus «otto catini di polenta», e «fiumi di broda che formano un lago di zuppa, un pelago di guazzetto», e «cento paioli che fumano fino alle nubi, colmi di tortelli, di gnocchi e tagliatelle». Nel gelo del Lager la fantasia insegue le stesse fantasticherie consolatorie. «Qual è il più lungo giorno che sia?», domandava il Re a Bertoldo. «Quello che si sta senza mangiare», rispondeva il trickster. Lo stesso dicono, a modo loro, i poveri soldati semianalfabeti presi prigionieri dall’odiato, secolare Nemico durante quella che a lungo fu proposta dalla storiografia patriottica come la quarta guerra d’indipendenza, e che con Caporetto fu sentita dall’intera nazione come un’Apocalisse, una fine del mondo.
Con l’abbondanza si sogna anche la pace, l’armonia del mondo che «nello sfacelo generale dell’Europa» appare «la sola colonna ancora in piedi», come scrive Leo Spitzer commentando le Lettere di prigionieri di guerra italiani, 1915-1918 (a cura di Lorenzo Renzi, traduzione di Renato Solmi, Il Saggiatore, pp. 481, euro 30,00) missive che lui stesso, austriaco poliglotta, europeo in primo luogo in quanto filologo romanzo, fu chiamato dal suo governo a censurare, a Vienna : «Cara Mimi non smaniarsi per mi pur, e venuta la guera Europea Viniera a paze, 100 bazi a dolze tu boca. Bog Mimi»; «In questi tempi calamitosi ove tutto si sconvolge ove nulla si comprende non resta che la personalita li posso perciò garantire che noi non siamo sgomenti di nulla in una parola siamo fatalisti e perciò che il destino si compie. Signor P. un desiderio solo, nutriamo e invochiamo che prima della tottale distruzione di questa decrepita Europa potessimo per pochi istanti stringersi la mano come veri amici senza fini reconditi».
È di straordinaria intelligenza l’analisi «di carattere psicologico», prima ancora che linguistico, che il trentenne Spitzer, non ancora diventato uno dei maestri europei di filologia e di critica letteraria, esercitò su questi poverissimi documenti di fame e di dolore, di solitudine e di sofferenza, offuscati dalla disperazione, schematici nelle formule, ardui talvolta più di un testo antico. Ma mentre leggo questi stralci di Lettere e il commento che lo stesso Spitzer dichiara risultato di uno «studio amoroso», per cui ama «d’amore la letteratura d’un popolo», non riesco a non ripensare alla sua celebre analisi dell’amor de lonh cantato da uno fra i più acuti trovatori provenzali, il principe Jaufre Rudel di Blaia, che per un paradossale, emozionante percorso della mente e del cuore si lega alle riflessioni su queste desolate missive di poveri Cristi, creature dolenti colpite dalla follia collettiva.
La vetta della più raffinata poesia cortese («la lontananza è un elemento necessario di ogni amore», proclamava con geniale intuizione agostiniana il saggio su Jaufre) si riflette nell’abisso della miseria materiale e linguistica di un soldatino sommerso dalla storia, ma salvato proprio dalla sua fede nella parola («il pensiero della lontananza rode come un interno veleno l’anima del prigioniero di guerra»). Lo conferma Spitzer stesso, quando riconosce un’affinità spirituale con «una poesia trobadorica del Medioevo» nell’«ultimatum amoroso di un istriano probabilmente del tutto incolto»: «i vostri cari ochi dicono che non potete eser versa di chi vi ama crudele. (…) e se siete libera poi dalle ultime. ferite amorose io vi atende con molto piacere (…) datemi La finale decisiva risposta comportandovi da vera amica». Tra il mirabile Jaufre Rudel e il miserabile soldato senza il dono della lingua, che dall’Istria va a combattere l’Austria in difesa una patria ideale che ama de lonh, l’austriaco Leo Spitzer innamorato dell’Italia intuisce un continuum spirituale che significa storia della civiltà europea al di là di qualsiasi confine linguistico, politico, culturale.
E riesce anche qui a esaltare il valore ermeneutico della stilistica, la sua forza antropologica, storiografica: «Come nella letteratura classica e moderna certi generi letterari sono legati a una certa lingua (basti pensare alla poesia corale della Grecia arcaica in dialetto dorico, alla poesia epica in dialetto acheo, alla storiografia in dialetto ionico, o alla lingua lirica per eccellenza del Medioevo, il provenzale), così anche qui nei modesti elaborati della corrispondenza privata, la tendenza stilistica della lettera influisce in una certa misura sulla sua lingua». Queste lettere affidate a una bottiglia nell’oceano del caso e del caos, in piena consapevolezza (ogni tanto espressa in modo esplicito) che una censura le violerà, non offrono, secondo Spitzer, «un’immagine del dialetto quanto piuttosto della lotta del dialetto con la lingua scritta».
In questo libro canta un’epopea mitigata della spontaneità contro i formalismi, delle emozioni contro gli schemi della politica. Qui c’è anche umorismo e ironia, e ci sono rassegnazione e brutalità. Ma è impossibile non cogliere un’eco straziante rispetto alle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana raccolte nel 1952 da Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, e a quelle romane edite nel ’99 da Mario Avagliano e Gabriele Le Moli. Sembra una lettera dal patibolo quella tenera e nostalgica, davvero epica (finita infatti sulla IV di copertina) inviata dal friulano Valerio Avian a Nadalina Bais, nel paese di Visco: «Qui e abastanza bene che lo sai anche tu, solo che forei vederti ancora una volta e poi saria contento di morire vorei darti ancora un bacio sulle tue labbra ardenti, allora si che il mio cuore saria assai contento di morire, ma coraggio che verrà anche quel giorno che potrò baciarti; e tu potrai me».
Il volume che Lorenzo Renzi ripropone oggi, arricchendo e restaurando con cura filologica la prima edizione apparsa nel 1976, è una miniera d’oro da estrarre separandolo dalla ganga (utilissima, peraltro, per antropologi, storici, sociolinguisti, dialettologi). Silvia Albesano ha compiuto un profondo lavoro di restauro, anche attraverso il ritrovamento nel Kriegsarchiv di Vienna di un prezioso dattiloscritto, datato febbraio 1916, contenente la prima stesura del libro. Lei stessa ha tradotto ora anche il libro che Spitzer pubblicò nel 1920 sulle Perifrasi per esprimere la fame, strettamente collegato a queste Lettere di prigionieri: ne aspettiamo l’uscita, annunciata presso il Saggiatore a cura di Claudia Caffi. Avremo così anche in italiano nella sua completezza un fondamentale strumento per la storia della nostra civiltà.
In uno dei saggi introduttivi alle Lettere di prigionieri Antonio Gibelli sottolinea che «quella che interessava a Spitzer era ovviamente non tanto la guerra agita ma la guerra parlata, e quindi la guerra narrata: potremmo dire la guerra affabulata e più precisamente (…) la guerra diventata scrittura nelle mani di uomini e donne comuni trascinati nel suo meccanismo inesorabile, piccoli testimoni di un’immane catastrofe». In un secondo studio, davvero decisivo per comprendere il senso della «fortuna duratura» del grande critico austriaco, cittadino europeo e del mondo intero dopo l’esilio a Istanbul e a Baltimora, Luca Morlino nota come in questo libro importante emerga «lo spirito umanitario e umanistico di Spitzer». Credo anch’io che l’idea di fondo del grande critico sia il riscatto della vita e della parola, della scrittura e della cultura di fronte alla violenza e alla morte: «L’ultima parola della guerra non può essere la guerra stessa».
L’attività censoria impostagli dal governo austriaco si trasformò per lui, attraverso lo studio delle formule sgrammaticate ma vibranti dei soldati prigionieri, in redenzione del loro essere uomini, in appassionata ricerca scientifica «su tutta la vita e le attività degli italiani», sulla «naturalezza sana e intatta del popolo italiano». «Anche la figlia della guerra, la censura, può essere una nuova fonte di sapere per l’impulso conoscitivo dell’uomo»: invece di «fungere da sostegno dell’autorità statale nel corso delle ostilità», la censura avrà «per effetto (…) un arricchimento delle conoscenze umane nella successiva epoca di pace».
Questo è vero umanesimo. Il contesto della guerra, che (come ricorda Morlino) lo storico francese Marc Bloch, maestro delle Annales, definì «un immenso esperimento di psicologia sociale di inaudita ricchezza», fa sì che Spitzer appaia oggi (secondo un’intuizione sottile di Edoardo Sanguineti) «il maggiore modello di critico in laboratorio»: e «anche quando sbaglia egli è assolutamente eccitante proprio per la sua spregiudicatezza».
«La lettera annulla le distanze. È un segno direttamente percettibile che prova in modo irrefutabile l’esistenza dello scrivente. Ma i segni scritti non vivono, e sono lettera morta per il destinatario, che, più o meno estraneo alla scrittura, non collega ad essi alcuna immagine visiva, e per cui le parole, nella stilizzazione forzata che è prodotta dall’incapacità e dall’imbarazzo, suonano come vocaboli di una lingua straniera o come traduzioni da essa». Studiando «la psicologia delle lettere» Spitzer riesce a udire e amare, de lonh, le «tonalità affettive», la voce intima dei poeti alti della civiltà romanza, a lui così cara e nota, anche nelle pieghe rozze e incondite dei messaggi nei quali, fra patriottismo ed egoismo, fra ricordi e speranze, prende luce una «biologia della lingua» (è lui stesso a sottolineare in corsivo). Zanzotto definirebbe queste lettere notificazioni di esistenza al mondo. Spitzer, nel laboratorio biolinguistico che la guerra gli impone, ha la forza di cogliere, tra gli sterminati mormorii dei prigionieri raccolti in questo libro, i silenzi, le pause, le incertezze, le implicazioni, il valore delle virgole, dei punti, dei punti interrogativi.
Alla censura viennese «potevano arrivare in un solo giorno anche centomila missive in lingua italiana». E secondo i dati ufficiali delle Poste, ricorda Renzi nella presentazione alla nuova edizione, «nell’Italia in guerra sono stati scambiati 4 miliardi di lettere e cartoline, una vera e propria ondata in piena (ma in Francia erano stati 10 miliardi, in Germania, sembra, 30)». Il diluvio universale in forma di parole e di carta scritta: la vittoria della parola come ultima speranza nella derelizione assoluta. Spitzer compone, da filologo e linguista, una sommessa chanson de geste dell’epica minuscola dei vinti. Ma anche un altro elemento decisivo viene illuminato da Renzi: «Le lettere raccolte da Spitzer rappresentano un caso speciale perché non sono lettere di soldati, come quelle di gran parte delle raccolte posteriori, ma di soldati fatti prigionieri. Tra questi, i reietti e disprezzati: i disertori, quelli che si erano consegnati al nemico senza combattere».
Sulla guerra e sulla sua miseria il maestro della critica stilistica posa uno sguardo che nasce dal basso, e che talora risulta anche impietoso: come quando, esemplificando le richieste di denaro e di vestiario, e insomma il piagnisteo «all’italiana», dichiara che il suo tentativo è di «delineare un quadro delle caratteristiche psicologiche» della nostra popolazione (il corsivo è ancora una volta suo). Soprattutto, epistemologia e deontologia per Spitzer filologo significano in primo luogo etica e politica, quindi estetica: «Ho sempre cercato di evitare il tanfo polveroso di una scienza squallida, e spero che il lettore non se la prenderà se lo introduco nella vita dove essa pulsa più fervida».
Chissà se sotto gli occhi di Spitzer finì anche qualcuna delle lettere che fra maggio e dicembre 1918 dovette spedire in Italia dal Cellelager, nei pressi di Hannover, «Block C, Baracca 15, camera B», il «sottotenente del 3° Reggimento Alpini Carlo Emilio Gadda, Duca di Sant’Aquila (Gaddüs)», che nel Giornale di guerra e prigionia annotava: «Fumo nella stufa, chiara luce alla finestra. Fine d’un altro giorno della nostra monotona e tragica vita. (…) Noi siamo colpevoli o vittime che non meritano d’essere considerati; martiri inutili; lasciamoli al loro martirio».