«La forza delle regole è subdola, soprattutto se è abbinata agli affetti. Agisce nel profondo e cammina sottoterra a qualunque ora del giorno e della notte, si infila nei pensieri, fa nascere dubbi e domande, blocca le azioni sul nascere, rende mansueti perché vittime del senso di colpa». Nel mondo raccontato da Mariangela Mianiti tra le pagine del romanzo Organsa (edizioni del Verri, pp. 269, euro 16) vigono ancora delle regole sociali ferree: l’autrice sceglie di raccontare – attraverso gli occhi di una ragazzina – la campagna italiana negli anni ’50 e ’60, prima che la rivoluzione sociale e le lotte femministe cambiassero la struttura familiare.

IN PRIMO PIANO, al centro della storia che la narratrice Aurelia ci racconta, c’è sua madre: Luisa. Ha studiato per diventare sarta a Parma, dove ha vissuto i primi mesi di matrimonio, prima ancora che i suoi genitori decidessero di prendere in gestione un’osteria in campagna, per farci lavorare lei e suo marito. Quando Luisa arriva a Campetto, con la «corriera», incontra la Gina, l’ostessa che l’aspetta per insegnarle il mestiere: Gina le spiega che bisogna dare da mangiare e da bere ai clienti, c’è il negozio da gestire, gli animali a cui badare, l’orto… «Mi hanno imbrogliata – pensa Luisa, in questo primo giorno – all’osteria della marletta», con in braccio Aurelia neonata. Più che ingannarla i suoi genitori le hanno rubato la vita: hanno deciso dell’esistenza della loro figlia e del marito disgraziato che le hanno imposto di sposare, perché lei era rimasta incinta. Hanno esercitato il controllo sulle loro vite, fino a che è stato possibile: i nonni di Aurelia rappresentano poco altro se non la ferocia di un sistema che si basa sullo sfruttamento, e non importa se il sangue e l’esistenza di chi veniva sfruttato fosse quello della propria figlia, conta il profitto.
Luisa è l’eroina di Aurelia perché riesce nel corso di una sola giornata a occuparsi dei suoi figli, del bucato, dell’osteria, del negozio, cuce per tutta la sua famiglia e per le clienti… La madre, però, non rappresenta un modello per Aurelia, al contrario: la forza sconfinata che Luisa ogni giorno impiega per portare avanti un carico di lavoro disumano non viene mai convogliata per ribellarsi allo sfruttamento, alla brutalità subita.
Siamo ancora, al tempo dell’infanzia di Aurelia che è quello della maggior parte del romanzo, nel Ciclo dei vinti. E Mianiti lo racconta molto bene, a partire da un punto di vista singolare e minuto, ma che contiene molte rifrazioni. Lo sguardo di Aurelia si può poggiare infatti non solo su sua madre, che inevitabilmente lo magnetizza, ma sul padre, sugli avventori dell’osteria, sui forestieri che ogni tanto vi capitano, sui suoi compagni di classe che non riescono a imparare l’italiano, perché non lo distinguono dal dialetto.

GRANDE PROTAGONISTA di questo romanzo è proprio la lingua della «bassa», della provincia di Parma dove si trovava «l’osteria della marletta». Il padre di Aurelia, che non sa né leggere né scrivere, parla solo dialetto, lo stesso vale per i suoi nonni. Solo Luisa parla italiano. Il piacere, soprattutto la forza narrativa che il dialetto dà a questi personaggi è enorme. Si tratta di uno dei tesori del romanzo: l’adesione fra quella verità sociale e personale e la loro realtà linguistica.
La forza del testo sta anche nell’essere il racconto di un sistema, proprio a partire dal momento subito precedente alla sua rottura: Aurelia vivrà a Milano, libera da qualsiasi imposizione familiare, istruita perché i suoi genitori, ancora schiavi, sono morti di fatica per la possibile libertà dei loro figli, soprattutto quella grandiosa di essere né vittima, né carnefice.