Una donna sola che non cerca marito in un paese ossessionato dalla famiglia è una novità. Così Maria Sole Tognazzi riassume il profilo di Irene (che ha la bravura divertita di Margherita Buy) la protagonista del suo film, viaggiatrice solitaria di professione visto che il suo lavoro consiste nel verificare le stelle assegnate agli alberghi di superlusso nel mondo. Certo che quanto rientra se dovesse assegnarne qualcuna al suo appartamento il risultato si fermerebbe a zero: impersonale, le piante secche, quell’aria d’abbandono dei posti che non si abitano mai. Irene ha una sorella Silvia, (con la dolcezza solare di Fabrizia Sacchi) che è il suo esatto opposto: sposata, con figli, fa la spesa bio e si trascura. Un giorno infatti mentre fanno shopping, e Silvia si prova un vestito (oggettivamente orrendo) Irene la dissuade dicendole: «Non è per te». E cosa è per me replica l’altra offesa a morte.

Già, cosa? Perché lei, Irene, che pure è elegantissima è sempre sola, e tra il Crillone di Parigi, il Gastaad Palace in Svizzera, il Fonteverde a San Casciano o il Palais Namashar a Marrakesh, scivola quasi invisibile; nessun approccio – solo una volta lo sguardo appena più prolungato del solito di un altro cliente solitario. Ma Irene non è un’avventuriera alla Marlene Dietrich, per lei gli alberghi non nascondono misteri, sono un corpo da vivisezionare, osservando le mancanze professionali di chi vi lavora come l’arroganza dei camerieri verso quella coppietta a San Casciano capitata lì per un regalo di nozze ed evidentemente fuori posto.
Ha un amico fraterno Irene, il suo ex Andrea che vende cibo bio (Stefano Accorsi) e che suo malgrado dopo una storia di pochi mesi si ritroverà a essere padre, soffocato dai dubbi.

Il nuovo film di Maria Sole Tognazzi è una variazione modulata sui femminili possibili (e dunque sui maschili), diciamo quei «tipi» che in sé concentrano infinite storie, ognuna declinabile in modo diverso. La madre, l’indipendente, e quella (Alessia Barela molto intensa sul grande schermo) che vuole un figlio a tutti i costi, anche da sola. Pure lei. Perché in fondo ciò che le unisce è proprio questa solitudine, la stessa che patisce Silvia nonostante la famiglia – il marito con la faccia depressa fa pensare che è meglio una casa vuota (è Gian Marco Tognazzi). Non è però una solitudine depressa, o deprimente che ci viene raccontata, al contrario appare come una specie di sottile resistenza nel rovesciamento, anche meno evidente, del luogo comune femminile. Il terreno è rischioso, ma la regista riesce con affettuosa complicità a tradurre le impercettibili sfumature del sentimento in una narrazione cinematografica. Umorismo, paradosso, ironia, litigi, desideri, incomprensioni, passioni amorose, paura si rincorrono nel movimento di queste donne attraverso lo sguardo della protagonista (che sembra anche di Maria Sole Tognazzi). Il suo personaggio non è quello di un’eroina che taglia la storia con trasformazioni obbligate, le sue crisi, e lo spavento per quella solitudine le pongono domande le cui risposte però non assecondano per forza il Cambiamento (per cosa poi?) e nemmeno l’indipendenza sbandierata come un’ascia. La suspence è altrove, nel corpo corpo tra una storia (sceneggiatura) che potrebbe rimanere chiusa e il talento della regista che ne spiazza continuamente gli esiti producendo sorprese e grandi piaceri. La libertà di Irene è dunque anche quella della macchina da presa, irriverente con allegria.