Calda, colta, sensuale, palpitante discoperta – la splendida texture della lunga estate lombarda di Luca Guadagnino aveva conquistato il Sundance Film Festival esattamente un anno fa. In questi dodici mesi, dopo una tappa a Berlino e forte di una distribuzione americana formidabile al gioco spietato e massacrante degli Awards, come la Sony Classics, ancor prima di arrivare in Italia, Chiamami col tuo nome (Call Me By Your Name), ha conquistato quattro nomination agli Oscar, il pubblico e la critica internazionali (il film miglior del 2017, secondo il Guardian), al punto che si sta persino parlando di sequel in cui ritornano gli stessi personaggi, nella vena degli Up, diretti da Michael Apted, e del ciclo truffautiano dedicato ad Antoine Doinel. Con questo adattamento del romanzo di Andrè Aciman, cosceneggiato insieme a James Ivory, Guadagnino adatta i tempi del suo cinema all’agiato, raffinato, rituale estivo della famiglia Perlman, fatta di un papà archeologo (Michael Stuhlbarg), una mamma francese (Amira Casar) che ama la poesia tedesca e del loro figlio diciassettenne Elio (Timothee Chalamet).

Parte di quel rituale, condito di Heidegger, Montaigne, Bach, succo d’albicocca fresco e interminabili gite in bicicletta, è la presenza – nella grande casa di campagna del cremasco, piena di libri, di porte, di luoghi segreti, letti disfatti e di conversazioni intelligenti – di un ricercatore che, ogni estate, per sei settimane, aiuta il professore nei suoi studi. Elio, costretto a cedergli la sua stanza da letto, lo chiama l’usurpatore.

L’usurpatore dell’estate d’inizio anni ottanta (più o meno gli anni dell’adolescenza di Guadagnino) in cui è ambientato il film è Oliver, ha la presenza statuaria di Armie Hammer (i gemelli Winklevoss in The Social Network, il marito traditore di Animali notturni), i modi asciutti e affabili di un americano in visita europea secondo un romanzo di Henry James (viene dal New Jersey) e una stella di Davide al collo. Bello e appena un po’ impenetrabile, Oliver si adatta con educata facilità alla vita di famiglia, ed è subito un oggetto di attrazione per le amiche di Elio. Il ragazzo, invece, all’inizio lo guarda con sospetto, quasi irritazione, ma – di colazione in colazione, di nuotata in nuotata, di sguardo in sguardo, di gita in paese in gita in paese, di battibecco in battibecco – la sua diffidenza si sgretola in desiderio.

Con un occhio ai colori della luce di Eric Rohmer (la fotografia è di Sayombhu Mukdeeprom), Guadagnino evoca con dolce precisione il languore struggente dell’ozio estivo, il senso della campagna – il pesce fresco portato a casa dal domestico, la vecchia signora che pulisce i piselli sulla soglia, le note dei Psychedelic Furs (Love My Way) che irrompono nel silenzio della piazza. In questo mondo sospeso, magico, quasi di sogno, il corteggiamento tra Oliver e Elio si conduce attraverso piccoli gesti, tocchi involontari, slanci improvvisi e improvvise marce indietro – il tumulto interiore dell’adolescenza che scorre visibile sul volto mutevolissimo di Chamalet, nella sua presenza febbrile, allo stesso tempo gradassa e innocente.

Un mix il suo, la cui seducente, imprevedibile, volubilità è ben riflessa nella bella colonna sonora di Sufjan Stevens (non a caso, Elio è anche dotato al pianoforte – capace di suonare un pezzo di Bach «come avrebbe fatto Liszt»). Meno sontuoso di Io sono l’amore e meno «jazz» di A Bigger Splash, ma emotivamente più libero e immediato, questo suo romanzo di formazione, incontra le tradizione letteraria del gran tour ottocentesco nel breve viaggio tra le montagne di Oliver e Elio. E se, all’inizio del film – l’arrivo di Oliver ricorda l’apparizione altrettanto conturbante di Terence Stamp in Teorema, qui Guadagnino sta ovviamente pensando a Bertolucci – un autore dei sensi, come lui, e come lui, un autore profondamente legato all’Italia ma allo stesso tempo istintivamente cosmopolita (più di un critico americano ha paragonato Call Me By Your Name a Io ballo da sola). Il suo è un cinema che, fin dagli inizi, ha sempre guardato aldilà delle Alpi.