Maguy Marin. Basta pensare al nome per avere negli occhi un grupnome per avere negli occhi un gruppo stretto di personaggi in goffi abiti chiari, i piedi strascicati, il corpo affaticato, il volto scavato dal trucco espressivo. Danzavano in quel May B che più di trent’anni fa, era il 1981, segnò un momento focale nella storia dell’allora giovane coreografa di Tolosa, formatasi con il guru del balletto moderno degli anni Sessanta, Maurice Béjart. Lo spettacolo si ispirava a Samuel Beckett, Maguy lo presentava come «l’inizio di una lettura segreta dei nostri gesti più intimi, più reconditi, più sconosciuti». May B, in quei fecondi anni Ottanta, passò anche da Milano: in primis al CRT, che invitò, lungimirante, la potente nuova artista, poi al Piccolo Teatro, nell’86. Un titolo che rimase nella pelle e nell’anima.

 

 

 

A Milano Marin è tornata qualche altra volta negli anni Novanta ancora al Piccolo, al CRT – Teatro dell’Arte mancava da trent’anni, ma il vuoto è stato colmato con un pezzo che, come May B – ancora oggi in tournée con la compagnia – merita di girare per molti e molti anni.
Il titolo è BiT, creazione 2014 tornata in Italia dopo il debutto nella scorsa edizione del festival Torinodanza, sei interpreti, tre uomini e tre donne, tra cui alcuni nomi da sempre con Maguy, come Ulises Alvarez. Sei grandi tavole oblique grigiastre e praticabili sono disposte a raggiera nel palcoscenico. Creano una sorta di barriera con pertugi che si aprono tra le pareti.

 

 

 

È buio, ma da un lato escono i sei danzatori. Si tengono per mano. Camminano ballando una farandola, un girotondo aperto, su una musica sorda e battente, che ci terrà avvinti a sé per tutto lo spettacolo. Donne e uomini sono in abiti quotidiani, gonne, pantaloni, camicie. Sei che rappresentano l’uomo tout court, noi e loro, sei persone insieme che stanno per il mondo tutto. Piccoli passi veloci, rapidi movimenti di bacino, braccia tenute alte, sguardi sorridenti. Si danza su e giù per le larghe assi, si salta, si corre. La musica è sempre più forte e intanto è arrivata la luce. Si sparisce a turno nel buio tra le assi. Una donna resta sola con un uomo. Qualcosa sta per succedere, consenzienti i due della coppia o forse no. Lei sparisce nel buio, dietro un asse, lui la segue. Li rivediamo, lei, lui, tutti. Scivolano dall’alto dell’asse centrale a testa in giù, lentamente, seminudi, drappi molli intorno al corpo, fino a raggiungere la terra.

 

 

Il sorriso è sparito. La scena è rabbuiata, governano l’istinto, la violenza, la lotta per la sopravvivenza, due uomini a terra si confrontano. La musica, di Charlie Aubry, avvolge, densa, l’azione, la scena. Marin spiega che tutto è cominciato da un lavoro sul ritmo, il ritmo che batte il tempo nelle strade, che scandisce le nostre vite, lento, rapido, il ritmo individuale che si incontra con il ritmo dell’altro, il ritmo delle generazioni.

 

 

 

E il ritmo pulsa senza riposo nello spettacolo. Un battito, molti battiti, come quelli che accompagnano l’uomo dalla nascita alla morte, animano le impennate musicali, nonché i boati più cupi. Il mondo della scena intanto sembra essere precipitato in un tempo lugubre con donne che filano come parche, coppie dal viso sporcato di nero, frati incappucciati e mascherati che violentano senza tregua, un medioevo dei sensi in cui il debole non ha scampo. È il tempo della compravendita, del baratto con monete d’oro che si riversano a terra dall’alto di una delle assi. L’immagine visiva è di un universo lontanissimo, tutto fuorché contemporaneo, ma la violenza, la confusione, la paura dei deboli, la mancanza di vergogna dei più forti ci parla con crudeltà dell’oggi.

06VISSINmarinpedroniaperturaunnamed

 

Riappaiono i sei, come all’inizio, danzando la farandola. Sono elegantissimi, da sera, con tacchi alti. Si arrampicano, salgono e scendono dalle pareti, si corteggiano, si confrontano. Le sei grandi assi sono spostate, creano una parete unica, sembra una montagna da scalare, trovata semplice quanto efficace. La farandola si apre a variazioni continue, ci si tiene, ci si lascia, si corre verso l’alto, si scivola verso il basso. I sei sono incredibili. Interpreti/autori da citare tutti, oltre a Ulises Alvarez, sono Kaïs Chouibi, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, Cathy Polo, Ennio Sammarco.

 

 

 

Età diverse, ma una maturità dello stare in scena personale e nello stesso tempo collettiva. Il ritmo della farandola sprona i sei in un viaggio sulle pedane che acquista sempre più forza. Quelle immagini buie, di violenza, che appartengono alla parte centrale dello spettacolo, è come fossero ancora lì, rimaste nella mente di chi guarda ad abitare la scena.

 

 

 

La farandola però è ricominciata e ci sentiamo fratelli di quei sei, consapevoli senz’altro come noi, della violenza, della confusione, della paura e dei soprusi che l’umanità subisce e compie. Eppure ancora si danza, si corre verso la cima della pedana. Lo spettacolo finisce con un salto nel vuoto, in cima a una delle grandi assi. Dove si vola? Si vola per morire? Si vola per sopravvivere?

 

 

 

Non sappiamo e nemmeno conosciamo cosa ci sia oltre la pedana. Eppure quel salto, proprio perché verso l’ignoto, così pieno di ritmo, sfolgorante nell’energia, ci entra nel cuore come un invito politico, sociale, a essere vigili, combattivi, non banali, non distratti. Maguy Marin ha firmato uno spettacolo autentico e dai tempi teatrali eccellenti, un lavoro che consegna al pubblico un contenuto da condividere.