A scartabellare le uscite editoriali di questi anni sembra che gli scrittori abbiano deciso di assecondare il nostro pruriginoso desiderio di cercare l’autore nel testo: Knausgård e Carrère, Rachel Cusk e Jenny Offill, in parecchi si sono cimentati con l’autofiction senza nascondimenti. Ma questa sbandata per l’autobiografia romanzata arriva con buon ritardo sullo shishosetsu, il «romanzo dell’io» codificato in Giappone a inizio Novecento. A questa definizione si lega, pur senza accettarne mai volentieri l’etichetta riduttiva, Tsushima Yuko.

Nata a Tokyo nel 1947, un anno prima che suo padre – quel Dazai Osamu simbolo di un’intera generazione di intellettuali maudits – si togliesse la vita, Tsushima trasfigura tutto il suo turbolento vissuto in Il figlio della fortuna (traduzione di Maria Teresa Orsi, Safarà, pp. 203, euro 18), il romanzo che ritorna disponibile in italiano a distanza di oltre trent’anni dalla prima edizione. Come la scrittrice, anche la protagonista Koko è una giovane donna divorziata, che insegna musica e vive da sola in un piccolo appartamento. Ha una figlia adolescente, Kayako, che però sta dalla zia materna.

Dopo il divorzio Koko ha messo in fila una sequenza di partner egoisti e immaturi, nessuno che la riesca a scuotere da una certa afasia sentimentale e dalla sensazione di stallo. La possibilità di una maternità più consapevole le dà l’opportunità di ripensare l’idea che ha di se stessa e del proprio corpo. È il campo visivo di Koko quello che vediamo anche noi, le sue relazioni con la famiglia e con i compagni, le sue sensazioni filtrate attraverso la personale percezione del mondo. Ciò che non viene rilevato come interessante è escluso da questo insieme e lasciato indietro, e persino la sorella, che ora si occupa di sua figlia, è una presenza offuscata.

L’ALTERNARSI tra presente e passato nei ricordi di Koko e in quelli della figlia Kayako corrobora la storia grazie alla continuità tra voce interiore, dialoghi e spazio diegetico. Nel romanzo realtà e sogno si intrecciano e si confondono nel quotidiano della protagonista, laddove spesso il vuoto e l’assenza sono sublimati oniricamente nelle immagini di galassie infinite che paiono volerla annichilire.

Il ricordo della scomparsa del fratello disabile diventa l’occasione per ridiscutere le risposte che la società le offre sulla natura della morte e sul vuoto che l’accompagna: «Morire voleva dire non potersi più incontrare». Questo incontro tra la propria e l’altrui finitezza può avvenire solo attraverso la scrittura, il territorio d’elezione per la stessa Tsushima, l’unico in cui si possa abitare e dunque elaborare la morte. «Scrivo fiction, ma vivo la fiction che scrivo» diceva nel 1989. Quattro anni prima Tsushima aveva perso un figlio ancora bambino. Le opere che scriverà da quel momento in poi sono coscientemente costruite attraverso la cognizione dolorosa della perdita, affinando il solco che aveva già cominciato a tracciare con Il figlio della fortuna.

TSUSHIMA dà voce alle possibilità di scelta delle donne, strappando i confini dei ruoli femminili fissati fin dal diciassettesimo secolo col principio ryosai kenbo, «buona moglie, madre saggia», e in effetti le sue protagoniste sono figlie dello Uman Ribu, il Women’s Liberation Movement, che spingeva alla liberazione del sesso e dell’eros per le donne, e non soltanto per un’uguaglianza economica e giuridica.

La protagonista del Figlio della fortuna, Koko, non proviene dal femminismo e cionondimeno le sue decisioni sono frutto di una lenta conquista, raggiunta attraverso delusioni e sconfitte personali. La fiction che la scrittrice quindi dice di vivere in prima persona rispecchia la realtà vissuta quotidianamente nelle case della maggior parte delle giapponesi sue contemporanee.

La famiglia, che si libera dei vincoli patriarcali d’anteguerra, è comunque l’àncora sociale che stabilizza ma condiziona, e una divorziata che cresce da sola la propria figlia senza tornare nella rassicurante casa d’origine viene inesorabilmente ostracizzata.
Per questo l’indipendenza di Koko non sembra mai una gratificante autonomia, quanto piuttosto una strada ostacolata da dubbi e insicurezze, per esempio quelle legate alla sua collocazione nel mondo. Sarà da sola che ristabilirà l’equilibrio del proprio vivere, spianando la strada alle donne dei romanzi che verranno in seguito, quelle di Kawakami Mieko e Murata Sayaka, figlie della cosiddetta «generazione femminista» delle ribelli che nel dopoguerra hanno lottato per la propria emancipazione.

MA LA STESSA KOKO del Figlio della fortuna è a sua volta figlia delle donne raccontate da Hayashi Fumiko quarant’anni prima, le donne che occupano il margine della storia, quelle ripudiate, quelle povere, che tuttavia da sole decidono di costruirsi un futuro giorno per giorno, destinate alla discriminazione e a un difficile affrancamento. Proprio come le donne raccontate da Tsushima con precisa risolutezza, quelle che vivono negli angusti spazi urbani, in appartamenti mai troppo confortevoli fra lavori precari o malpagati. La scelta personale e autobiografica della scrittura si fa allora strumento attraverso il quale affermare la propria esistenza e articolare la propria identità.