Proteste e occupazioni stanno mettendo in discussione il modello di scuola. E l’università? Il timore è che il ricatto dei fondi del Pnrr silenzi un senso critico già svilito da anni di normalizzazione burocratica e asservito dalla mercificazione della ricerca e dell’insegnamento. Tanto più in un contesto sottofinanziato. Solo un dato: alla ricerca l’Italia destina lo 0,96% del Pil contro l’1,55% della media dei paesi Ocse. Impera in questi giorni nei dipartimenti universitari l’affannosa rincorsa e invenzione di progetti, (co)stretti in un unico orizzonte: l’innovazione. Quale innovazione?

Il titolo del Pnrr dedicato all’università è evocativo: «Dalla ricerca all’impresa» (missione 4, componente 2), basta svolgerlo: dalla libertà di ricerca agli interessi dell’impresa. Sia sufficiente citare alcuni passaggi: favorire «l’apertura delle infrastrutture di ricerca all’utilizzo da parte del mondo produttivo», «sviluppo di competenze dedicate a specifiche esigenze delle imprese», immancabili «partnership pubblico/private», «ridurre il mismatch tra competenze richieste dalle imprese e competenze fornite dalle università», i progetti devono «stimolare le capacità innovative delle imprese». L’innovazione, preferibilmente green e digitale, è funzionale alle imprese.

In una lettera aperta del movimento studentesco degli anni 1989-1990, la Pantera, si contestava la riforma sull’«autonomia» universitaria allora in discussione (la cosiddetta riforma Ruberti) in quanto legittimava «l’ingresso del capitale privato come principale e determinante fonte di finanziamento della ricerca», mettendo i privati in condizione di pilotarla. Così è stato, e oggi, trascorsi più di trent’anni e altre pessime riforme (fra le quali, le leggi n. 133 del 2008 e n. 240 del 2010, contro le quali si è battuto un altro movimento, l’Onda), con il Pnrr, un altro passo è compiuto: la ricerca, come l’insegnamento, sono plasmate sugli interessi delle imprese, ma con i fondi pubblici.

L’impresa è il soggetto principe, in una prospettiva ordoliberale (il benessere della società dipende dalla massimizzazione del profitto dei privati), che al momento assume i connotati di un welfare per le imprese.

Il processo di aziendalizzazione è duplice: da un lato, l’università si struttura come un’azienda; dall’altro, suo interlocutore privilegiato sono le aziende. La trasformazione muove dal linguaggio (per tutti, i crediti), e pervade la configurazione dell’università, il suo senso. La ricerca libera, senza oggetti e indirizzi predeterminati, scompare in favore della ricerca applicata o comunque indirizzata.

Come se non avessimo una Costituzione che proclama la libertà della scienza e dell’insegnamento (articolo 33), che affida alla Repubblica il compito di promuovere la cultura e la ricerca (articolo 9), che sancisce il diritto all’istruzione (articolo 34), non l’addestramento al mercato del lavoro, in un contesto che mette al centro la persona, con la sua emancipazione (articolo 3), che ragiona di limiti e indirizzi della libertà di iniziativa economica privata per fini sociali (e da pochi giorni anche «ambientali»… con qualche legittimo sospetto, in epoca di ristrutturazione del capitale in senso green, sul fatto che il fine sia una effettiva tutela dell’ambiente; articolo 41 della Costituzione).

La libertà condizionata, funzionalizzata agli interessi delle imprese, restringe orizzonti, prospettive e alternative: si intaccano le precondizioni del sapere critico e plurale che alimenta il pluralismo e il conflitto quali essenza e humus imprescindibile della democrazia. Conoscenza e pensiero critico sono sostituite dalle nozioni, dalla tecnica, dalle «competenze», funzionali ad una visione, dalla produzione di ricerca «redditizia».

È necessaria un’inversione di rotta: per una garanzia effettiva del diritto allo studio (nell’ottica della soddisfazione di un diritto a carattere universale); per la creazione di un percorso accademico libero dal ricatto del precariato e della ricerca a progetto; per un’università – pubblica – che sia strumento di trasformazione sociale, spazio di pensiero critico dell’esistente e libero nel creare e immaginare alternative, aperto al territorio e alla società.

Asservire la ricerca, come si legge nella lettera prima citata della Pantera, «equivale a sostenere l’impossibilità di criticare il presente»: è quello che sta accadendo in una università dalla libertà condizionata, asfissiata da una cappa burocratica e da una valutazione omologante, imbevuta di logiche aziendalistiche. Rompiamo il silenzio.