In un discorso di 35 minuti, tenuto giovedì alla Georgetown University, e seguito da un’intervista a Fox News, Mark Zuckenberg ha evocato Martin Luther King e Frederick Douglass insiema alla sacralità del primo emendamento per difendere il no di Facebook ad esercitare una qualche forma di controllo sui contenuti dell’informazione politica messa in circolo dal suo social network – incluse le inserzioni pubblicitarie a pagamento. L’intervento bellicoso di Zuckenberg che ha provocato reazioni negative anche nella famiglia di Martin Luther King: «Ho letto il discorso sulla libertà di espressione di Zuckenberg, in cui si fa riferimento a mio padre. E vorrei aiutare Facebook a capire il tipo di sfide che #MLK ha dovuto fronteggiare a causa delle campagne di disinformazione lanciate da uomini politici. E che sono state proprio quelle campagne a creare l’atmosfera che ha portato al suo assassinio» ha twittato la figlia di King, Berenice) è stata l’ultima risposta alle crescenti pressioni che vorrebbero i social più impegnati nella battaglia contro la diffusione di fake news, istigazioni al razzismo e alla violenza e affini. L’ombra della campagna 2016, in cui lo strapotere dei social è stato decisivo, pesa sull’alba di quella del 2020 e mentre Trump acquista milioni di dollari in pubblicità su Facebook, Elizabeth Warren sta progressivemente stagliandosi come la nemesi più riconoscibile della piattaforma, che il senatore del Massachusetts ha spesso definito «una macchina di disinformazione a scopo di lucro».

PER SOTTOLINEARE la sua argomentazione, Warren (che ha promesso la frammentazione delle big tech, e reagito con un suo tweet al discorso di Georgetown: «Facebook sta attivamente aiutando Trump a diffondere bugie e disinformazione. Hanno contribuito a farlo eleggere una volta e potrebbero farlo ancora»), la settimana scorsa, attraverso la sua campagna elettorale ha fatto circolare un suo item di fake news in cui si annunciava che Mark Zuckenberg aveva dato il suo endorsement ufficiale a Donald Trump. Scorrendo il testo del meme, diffuso in realtà dalla campagna di Warren, si scopriva subito che la notizia era una bufala – ma l’idea era di dimostrare un punto. A scapito della superficialità intrinseca all’indole libertaria di Silicon Valley. E lo stunt ha fatto il suo effetto. Come ha funzionato un video creato la settimana scorsa da un gruppo trumpista in cui si vedeva il presidente Usa (la foto della sua faccia crudamente sovrapposta al corpo di Colin Firth in una sequenza di Kingsmen 2) massacrare a colpi di pistola noti giornalisti e politici democratici.

In altri tempi, il video – un oggetto di satira, anche se non della più sottil i- sarebbe probabilmente rimasto seppellito tra gli tsunami di immagini in orbita su internet o al convegno pro Trump di Miami dove ha fatto il suo debutto. È stato invece elevato a caso del giorno da un articolo di prima pagina pubblicato sul «New York Times», che identificava i suoi autori come noti supporter del presidente, in contatto con la sua macchina comunicativa e persino invitati alla Casa Bianca. Ridicolizzato dalla destra per aver preso sul serio il video, ma criticato anche da alcune vene liberal in difesa della libertà di parola e per eccesso di allarmismo, il «Times» ha dovuto difendersi con un lungo editoriale: il video non è solo di cattivo gusto, con i tempi che corrono è una minaccia. E la sua grossolanità non è casuale, bensì una strategia. Nell’editoriale, il quotidiano ha anche ammesso che giornalisti e capo redattori oggi sono in difficoltà di fronte a prodotti del genere. Come in difficoltà è chi crede nel primo emendamento che protegge la libertà di parola, ma anche nella necessità di una maggior responsabilizzazione da parte di FB. La soluzione a come gestire gli oggetti pericolosi del terzo tipo che hanno deciso il 2016 è ancora lontana.
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