Guardarsi vivere in un momento cruciale della Storia: la Liberazione secondo Duras

Marguerite Duras non ha mai amato molto i film tratti dalle sue opere, forse perché, in un modo abbastanza ingenuo, quasi magico, pretendeva di vedere sullo schermo esattamente ciò che aveva immaginato nello scrivere. Un po’ come Beckett, suo grande ammiratore ed amico, era portatrice di una inedita visione del quotidiano, di un flusso di immagini prima ancora che di parole, che davano ai suoi scritti un forte impatto visivo. Di qui l’interesse del cinema a realizzare film dalle sue opere: da René Clément a Tony Richardson, da Peter Brook a Jules Dassin, da Henri Colpi ad Alain Resnais che firmò il grande successo di Hiroshima mon amour, da Dino De Laurentiis che produsse Una diga sul Pacifico, sino a L’amant di Jean-Jaques Annaud, si può dire che quasi nessuno abbia cercato un particolare linguaggio in grado di restituire sullo schermo l’originalità e la forza dei testi di Duras. Fu lei stessa, nell’arco degli anni ’70, a creare uno stile particolare realizzando film sperimentali che pochi hanno avuto la possibilità di vedere: Des journés entières dans les arbres, India Song, Son nom de Venise dans Calcutta désert, Nathalie Granger, Le camion,Les mains négatives, Césarée, Agata, L’homme atlantique,sono titoli che non dicono nulla, soprattutto al pubblico italiano. Caratteristica comune di questi film è l’uso di una o più voci fuori campo che creano come una distanza tra visivo e sonoro, uno spazio aperto alla ricettività dello spettatore cui è consentito andare oltre i limiti dello schermo. Si genera così nel cinema un processo simile a quello della letteratura, in cui il lettore ha la libertà di immaginare la storia.

Credo che Emmanuel Finkiel, autore de La Douleur (Il dolore), abbia in qualche modo intuito questa particolarità dello stile durassiano nel realizzare un film in cui Mélanie Thierry, un’ex modella poco nota come attrice, interpreta magistralmente il ruolo di Marguerite Duras alla fine dell’ultima guerra, in attesa che il marito Robert Antelme torni dalla prigionia. La “cellula” della resistenza di rue St. Benoit, della quale facevano parte anche Dionys Mascolo, il migliore amico di Antelme, e François Mitterand (con il soprannome di Morland), era appunto l’indirizzo dell’appartamento di St. Germain che Marguerite divideva con Robert, una casa aperta agli amici dove si discuteva di letteratura, si suonava il piano e si organizzava la resistenza, dove la scrittrice aveva vissuto le prime crisi coniugali e nel ‘42 aveva dato alla luce un bambino morto.

Ma il 1° giugno del ’44, in una retata in rue Dupin, durante una riunione a casa di sua sorella Marie Louise, Robert Antelme viene catturato, assieme agli altri del gruppo, da Rabier, Commissario di Polizia al servizio dei tedeschi. L’obbiettivo più importante della retata è in realtà François Mitterand, che si salva miracolosamente con una telefonata a Marie Louise, già prigioniera della polizia, che finge di non riconoscerlo. Inizia così il lungo periodo di “dolore” per Marguerite che cerca Robert e fa appena in tempo a vederlo su un camion tedesco che lo porta via. Durante le peregrinazioni negli uffici della polizia per mandare un pacco a suo marito, Marguerite conosce Rabier. Ne nasce un ambiguo rapporto in cui lui cerca di sedurla e lei cerca di ottenere notizie di suo marito. Malgrado avesse già deciso di separarsi da lui, la sopravvivenza di Robert diventa un’ossessione che cresce col passare dei giorni. Va quotidianamente alla Gare D’Orsay dove arrivano i treni dalla Germania e raccoglie nomi e notizie da diffondere a chi è rimasto a casa: le donne, soprattutto, sono uguali di generazione in generazione, sempre unite nella classica attesa degli uomini che dovrebbero tornare dalla guerra. Malgrado l’affetto di Dionys Mascolo, Marguerite è divorata dall’angoscia e dall’ambiguità del rapporto con Rabier, per il quale prova insieme attrazione e repulsione. E’ interessante il modo in cui il regista esprime quest’ambivalenza mostrando una Marguerite che agisce e nella stessa inquadratura Marguerite che guarda se stessa agire, come in uno sdoppiamento mentale che si fa immagine. Importante anche l’uso delle luci, nella maggior parte del film soffuse, in penombra, che improvvisamente illuminano le scene più significative della Liberazione.

Il regista, che è stato assistente di Kieslowski e di Godard, dice di aver provato una forte empatia per il libro, e di aver vissuto la stessa angoscia di Duras perché i suoi genitori e un fratello minore scomparvero nell’enorme deportazione del Vel d’Hiver (il Velodromo d’Inverno) nel luglio del ’42. Il sentimento di solitudine e di mancanza per l’assenza dei genitori gli ha fatto vivere in prima persona il trauma di Marguerite, e per interpretarla ha voluto un’attrice che è riuscita a dare al personaggio la forza di carattere della scrittrice, ma anche la sensazione della sua fragilità. Di fronte al bel volto di Mélanie Thierry, nessuno si aspettava una prova d’attrice così vissuta e profonda. Anche il personaggio di Rabier, secondo il regista, è stato una bella prova per Benoit Magimel, sebbene il Commissario di Polizia nella realtà fosse probabilmente meno romantico di come lo descrive Duras. Il suo desiderio di aprire una libreria dopo la fine della guerra, il rispetto nei confronti dell’attività di scrittrice di Marguerite ispirano una simpatia che forse non gli apparteneva nella realtà, in forte contrasto con l’esibizione in pubblico delle manette e di una pistola che vengono posate con ostentazione sul tavolo del ristorante dove ha invitato la signora.

Oltre all’uso particolare della messa a fuoco, che punta sui personaggi – soprattutto su Marguerite – lasciando spesso sfocati i dettagli della scena, Finkiel trova a volte delle soluzioni visive originali che non sarebbero dispiaciute a Duras, come l’inquadratura della piazza vuota mentre lo scampanìo e la gente in festa per la Liberazione vengono “raccontati” dalla voce fuori campo. La voce è quella di Marguerite, stanca dei festeggiamenti che non liberano la gente perché troppi sono i lutti e troppo opprimente è l’autoritarismo del governo di De Gaulle, che si è insediato sostituendo con la stessa rigidezza e la stessa inflessibilità i suoi funzionari a quelli tedeschi. Robert farà un tentativo di riconciliarsi con Marguerite, ma lei, innamorata di Dionys, vorrà ed avrà poi un figlio da lui. Nessuno dei personaggi della rue St. Benoit è prevedibile o scontato, e tutto si regge esclusivamente sul filo del desiderio. Il film, come il libro, si chiude su una spiaggia italiana dove Marguerite va al mare con Robert e Dionys. Ha conosciuto da poco una coppia di editori che hanno trovato il posto ed organizzato tutto. Si chiamano Ginetta ed Elio Vittorini. E da queste vacanze nascerà un altro libro di Duras: I cavallini di Tarquinia. Robert, malgrado la sua debolezza, la sua scheletrica magrezza, riesce ad alzarsi e ad andare verso il mare che adora. Marguerite scrive di lui: “Era l’intelligenza in persona, e detestava esprimersi facendo pesare la sua intelligenza.”