In un articolo del 7 maggio scorso, 38 marzo secondo il calendario della Nuit Debout, raccontavamo a caldo l’occupazione della Cinémathèque française e la sua rapida conclusione. Il 42 di marzo, la direzione della Cinémathèque, chiamata in causa dagli occupanti, rispondeva con un lungo comunicato pubblicato dal sito Mediapart. A stretto giro di posta, gli occupanti esercitavano un diritto di replica con un lunghissimo contro-comunicato. Da quel momento, più nulla. Il gruppo di precari della cultura che aveva organizzato l’azione si è dissolto nel mare della mobilitazione contro il progetto di legge El-Khomri. Gli scioperi operai bloccano la produzione, i trasporti, l’energia. In molte città, gli studenti si confrontano con la polizia. Della Cinémathèque,non si parla più. Ma non è forse normale? Cos’è l’occupazione di un luogo, per quanto simbolico, nel quadro di una stagione di lotte? È un pezzo del tutto? Forse neanche questo: solo un episodio da valutare a parte, mosso da dinamiche proprie al mondo del cinema. Che lezione possiamo trarne?

 
Riprendiamo i fatti. Partiamo da gennaio. Serge Toubiana, direttore della Cinémathèque lascia il posto che ricopre dal 2003, vale a dire da quando la cineteca più famosa del mondo si è installata nella nuova moderna sede di Bercy. E da quando è diventata un luogo di grandi eventi legati al cinema. Al suo posto, è nominato Frédéric Bonnaud.

 

 

Sulla carta, età a parte, i due profili si somigliano. Serge Toubiana è un pezzo della storia della cinefilia francese. È entrato ai Cahiers du cinéma dopo il 1968, più come esperto di politica e di economia che come critico. E stato uno dei protagonisti della nuova linea «ecumenica» degli anni ’80, quando i Cahiers si riaprono al cinema americano. Pur definendo questa svolta «moderata», Toubiana si presenta volentieri come un «progressista». Questi termini tra virgolette, sono volutamente ambigui: descrivono una posizione sulla politica del cinema e sul cinema politico.

 

 

Per chiarire questo punto bisogna aprire una parentesi. Storicamente, in Francia, la militanza politica e la militanza cinefila erano distinte. Nel dopoguerra e fino alla Nouvelle Vague, la cinefilia non era politicizzata e certo non di sinistra. È stato il ’68 riunire questi due mondi, sulla base della comune radicalità: quella cinefila (certi autori contro tutti gli altri) e quella politica (una sinistra, l’estrema, contro tutto il resto). La Cinémathèque di Bercy ha rappresentato la redenzione dal 1968. La sua sola politica è stata: il cinema è un pantheon dove tutti gli autori stanno insieme.

 

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Bonnaud viene dalla cinefilia e, come Toubiana, ha coltivato, accanto alla critica pura, una forte sensibilità politica. Sia come direttore di Les Inrockuptibles, sia come collaboratore del sito di inchiesta Mediapart – entrambe testate apertamente «liberal» – si è proposto come un editorialista progressista.

 
A rompere l’incanto di questo quadretto di famiglia, si è alzata una voce inattesa. Non è venuta da vecchi nemici o da persone della «casta». Ma da una ragazza di 21 anni, Anna Bosc-Molinaro. Anna ha lavorato alla Cinémathèque per due anni, come cassiera e hostess all’accoglienza. Proprio mentre Bonnaud veniva nominato, Anna veniva licenziata dall’agenzia interinale City One, perché una volta, dopo due anni di umiliazioni, e sogni infranti, ha osato dire no. Contrariamente a molti suoi compagni che se ne sono andati senza fare rumore, Anna ha detto la sua a voce alta inviando una video-lettera a Toubiana. Chiunque l’abbia vista, sa che si tratta di un piccolo capolavoro (www.youtube.com/watch?v=5kcezvrbQbc).

 

 

C’è la forma, la sfrontatezza, l’intelligenza della Chinoise di Godard. Ma non è maniera, non è museo. Perché ciò che Anna dice, racconta, denuncia, è reale. E esprime al meglio quello che la Cinémathèque dovrebbe essere: parlare del/al mondo per immagini.

 
Anna ha spiegato che la Cinémathèque di Toubiana, che pure è un luogo d’arte e ospita cineasti progressisti è un luogo di sfruttamento dei lavoratori, e di umiliazione (anche sessuale) delle lavoratrici. E questo lo sanno in pochi. Toubiana ha replicato con cinico genio: «Perché questa gentile ragazza non è venuta a parlarmi ? La mia porta è sempre stata aperta».Bonnaud, che pure non era chiamato in causa – si era appena insediato – ha risposto invece in maniera scomposta: «Cassiera è un lavoretto da studentessa, non mi vedo a dargli un impiego fisso».

 
Ora, non è solo la Cinémathèque ad essere diventata un museo-azienda. La video-lettera ha dato voce ad un mondo più ampio. Molti lavoratori precari di diversi centri culturali si sono riconosciuti nelle parole di Anna, hanno cominciato a discutere e dopo le dichiarazioni di Bonnaud hanno deciso di passare all’azione. L’occupazione della Cinémathèque doveva essere l’entrata in scena di un mondo di precari della cultura che chiede di discutere non solo di salari e di diritti, ma anche di partecipazione, di formazione e di integrazione in seno all’équipe che gestisce questi luoghi.

 

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A questa esigenza di dialogo la Cinémathèque ha risposto con due «no». Nell’immediato, inviando la polizia a sgomberare i locali. Il giorno seguente il museo del cinema ha riaperto le sue porte come se nulla fosse, ma l’immagine della polizia nella Cinémathèque resta. Ed un’immagine che stride con quella che il museo vuole dare di sé. Per questo, è stato necessario un secondo no: un comunicato del presidente Costa Gravas e del direttore Bonnaud.

 

 

Il testo contiene delle informazioni e alcuni argomenti. Due in particolare. Primo: la maggior parte degli impiegati della Cinémathèque ha un posto fisso e una buona paga. Secondo: la maggior parte degli impiegati della Cinémathèque non ha partecipato all’occupazione. Doppia delegittimazione degli occupanti. Per prima cosa, la loro accusa è falsa. La Cinémathèque non sarebbe un luogo di sfruttamento e di oppressione. E, in secondo luogo, essi non rappresenterebbero i veri lavoratori. Lo proverebbe il fatto che, la sera della fatidica occupazione, non era presente nessun lavoratore della Cinémathèque, né di City one.

 
Nella replica, gli occupanti hanno avuto buon gioco a mostrare la debolezza di questi attacchi. Il fatto che una gran parte dei salariati sia a tempo indeterminato non vuol dire che non ci si debba occupare della minoranza. E il fatto che nessun impiegato, né fisso né precario, osi partecipare ad un movimento di protesta, ma solo chi è stato licenziato e non ha più nulla da perdere, non vuol dire che il disagio e i soprusi non ci siano. Infine, il fatto che alcuni degli impiegati firmino una lettera in cui si schierano a difesa della Cinémathèque dagli attacchi, è anch’esso un segno ambivalente. Si difende non il posto di lavoro, non il diritto dei lavoratori, ma il proprio privilegio.

 
C’è un altro elemento di riflessione, che i precari nella replica non rilevano perché è evidente solo con il senno di poi. Il linguaggio e gli argomenti con cui Bonnaud e Gravas liquidano l’occupazione sono simili a quelli che il governo di Valls e Hollande usa in questi giorni per delegittimare la Cgt e gli scioperanti. Identico è il disprezzo. Verso la fine, il comunicato perde ogni senso della misura e minaccia di «non lesinare la forza» contro un gruppo «di finti militanti e di veri reazionari mossi da non si sa quale risentimento».

 
Come interpretare queste pulsioni? Si potrebbe pensare che Bonneaud e Gravas hanno, per parlar con Faust, venduto l’anima? O forse è piuttosto il contrario, il loro potere cioè è del tutto apparente?
Così come Hollande non ha inventato la riforma del lavoro (ha solo applicato una ricetta, come Renzi in Italia) così Bonnaud potrà fare poco di diverso da quello che è stato già previsto dalla struttura stessa dell’istituzione da lui diretta?

 

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Di fatto, il giorno del suo insediamento, ha stupito tutti con un discorso in cui si è limitato a affermare la propria impossibilità a agire con l’argomento che la Cinémathèque non è più quella di un tempo, e non c’è nulla da fare. Ma ha stupito ancora di più, e diverse testimonianze ce lo confermano, che le prime parole di questo suo discorso, le ultime non di circostanza, fossero rivolte contro la video-lettera di Anna – questa giovane ex-cassiera che apparentemente non conta nulla, ma che in cinque minuti di video ha fatto rivivere lo spirito della Cinémathèque e della Nouvelle vague, mettendo i maschietti al potere davanti alla loro impotenza.