Il jazz si materializza e sostanzia nella performance che vede la coincidenza di arte e vita. Parole che diventano concreta e viva realtà in Lucky to Be Me (Abeat), l’ultimo album della cantante statunitense Sheila Jordan. La durata è quella esatta – bis compreso – di un concerto del novembre 2016 (registrato a Castellanza, Varese); la grande vocalist è accompagnata da jazzisti italiani che da anni la supportano nei suoi tour nel Bel Paese: il brillante e raffinato pianista Roberto Cipelli, l’esperto e impeccabile contrabbassista Attilio Zanchi, il versatile batterista Tommy Bradascio. In un’ora ed un quarto la Jordan concentra la sua esistenza e dà una lezione di vita al pubblico in sala e a chi l’ascolta in differita: nata nel 1928, ai tempi del recital aveva 88 anni, traditi solo in parte dalla voce ma portati in maniera elegante, briosa, coinvolgente.

LA CANTANTE, originaria di Detroit, apre il set con un brano di Leonard Bernstein che sembra uno slogan ed incarna la sua filosofia: Lucky to Be Me, ovvero la capacità di aderire in pieno all’esistenza, di viverla con gusto e profondità, di essere felice per il rapporto con musicisti e pubblico. Non sono parole (e note) di un’attempata buontempona: Sheila Jordan conosce bene la vita e nel bis, il suo brano The Crossing, narra in modo indiretto del proprio alcolismo. In Dat Dere i versi del poeta Oscar Brown jr (collaborò con Max Roach per la militante ed ispirata Freedom Now Suite) servono a parlare con tenerezza e forza del suo rapporto con la figlia, che allevò con amore dopo il divorzio dal pianista Duke Jordan lavorando come dattilografa di giorno e cantando nei club del Greenwich Village di notte. Ma c’è anche la Sheila Jordan innamorata di New York – e dei veri, ospitali newyorkesi – ed è quella che esegue Autumn in New York, la stessa che celebra con fierezza un’antenata pellerossa in Queen Aliquippa. Biografia e musica si fondono in modo mirabile: tutti gli stili canori sperimentati dalla vocalist si ritrovano nei vari brani.

L’INTERPRETAZIONE delle ballad, l’improvvisazione in scat, la creazione di testi su assoli famosi (vocalese), l’invenzione estemporanea di versi e strofe che si ascoltano in The Bird, Confirmation, Oh, Lady Be Good, Workshop Blues… Man mano che il concerto si dipana Jordan tira fuori tutta la sua classe, la voce si fa più salda, il dialogo con il pubblico sempre più intenso e scoppiettante, l’intesa con il suo quartetto telepatica. Una vita, la sua, non facile in cui la passione per il jazz è stata bussola fondamentale: costruisce testi su temi parkeriani fin dal 1949, studia con Lennie Tristano (1951-’52), debutta su disco solo nel 1963 grazie a George Russell, dal 1966 si esibisce spesso in Europa e solo dagli anni ’90 si dedica a tempo pieno al jazz, dopo essere andata in pensione dal suo lavoro di segretaria d’azienda. Eppure Sheila Jordan lascia un segno indelebile in chiunque la ascolti o frequenti un suo seminario.