È un Pd soddisfatto quello che registra il tutto esaurito in ogni spazio disponibile del palazzo Re Enzo, dalla sala principale ai vari laboratori tematici. La tre giorni «Gli anni 20 del 2000, tutta un’altra storia» si sta rivelando un successo. E un successo personale è stato quello dell’ex ministro Fabrizio Barca, che come coordinatore del Forum disuguaglianze e diversità ha relazionato sul tema della giustizia sociale.

Barca, come è nato il suo intervento?

Il Forum è un’alleanza fra otto organizzazioni di cittadinanza attiva di cultura diversa, e fra queste e il mondo della ricerca. La missione che ci ha fatto incontrare è appunto quella della giustizia sociale, dell’obiettivo costituzionale del «pieno sviluppo della persona umana». Di fronte alle disuguaglianze che hanno progressivamente investito negli ultimi 40 anni la società italiana, non solo di reddito ma anche fra centri e periferie e fra le stesse città, toccando ogni ambito della vita quotidiana, dall’istruzione alla cura della salute, dalla mobilità alle comunicazioni, dall’abitare all’intero welfare, ci siamo messi al lavoro per elaborare una diagnosi. Per capire come cambiare rotta, per costruire, appunto, un’altra storia.

Cosa è emerso dalla vostra analisi?

Che le disuguaglianze sono una scelta, come scrive Antony Atkinson, guardando all’intero Occidente. Sono il frutto della svolta a 180 gradi che cultura politica e politiche, di ogni parte, compiono a cavallo fra gli Anni 70 e 80. Della subalternità culturale diffusa al neoliberalismo. Di fronte alla globalizzazione e alla rivoluzione tecnologica, invece di tentare di indirizzare questi processi, l’azione pubblica e collettiva si è ritratta.

E ora i risultati sono sotto gli occhi di tutti, non è vero?

Certo, perché è cambiato il taglio delle politiche macroeconomiche che avevano segnato il dopoguerra. Accantonati gli obiettivi della piena occupazione e di contrasto del ciclo economico. Indebolite le politiche di regolazione dei mercati e di tutela della concorrenza. A livello internazionale, poi, la liberalizzazione del commercio è stata accompagnata da due alterazioni dei rapporti di potere. Nel 1994 viene esasperata la protezione della proprietà intellettuale rispetto al principio del libero accesso alla conoscenza. In parallelo vengono completamente liberalizzati i movimenti di capitale, spostando potere da chi controlla lo Stato a chi controlla i capitali. In una misura tale da essere insostenibile, incompatibile, per la democrazia.

Di fronte a questo quadro la sinistra non ha fatto la sinistra?

Ha cercato alibi. Da quello della cosiddetta «società liquida» che non si potrebbe più rappresentare, che ha portato ad accantonare i valori e dare la vittoria al credo neoliberale del There is no alternative, all’alibi della fine del conflitto fra capitale e lavoro. Che è una falsità. Intanto però si indebolivano i sindacati, e si diventava subalterni alle politiche neoliberali. Politiche che hanno impedito di indirizzare il cambiamento tecnologico, e hanno prodotto uno straordinario processo di concentrazione della conoscenza, del potere e della ricchezza.

Adesso che fare?

Nel Forum abbiamo elaborato una strategia che tocca i cambiamenti tecnologici, per ridurre la concentrazione delle conoscenze; il tema capitale/lavoro, per restituire potere al lavoro; e quelle che chiamiamo «crisi generazionali», per ridurre le sperequazioni fra i teenager che oggi, a seconda della ricchezza delle loro famiglie, potranno o non potranno continuare a studiare.

Può spiegarci più in dettaglio?

Sulla tecnologia pensiamo che serva creare tre grandi imprese pubbliche europee su digitale, salute, e transizione energetica, partendo dalla rete di mille infrastrutture pubbliche europee di ricerca che, paradossalmente, finiscono per arricchire il capitale privato, che si appropria dei risultati delle ricerche. Quanto al tema capitale/lavoro, basterebbe applicare il programma di questo governo: fare un salario minimo legale, fare una legge sulla rappresentanza, e fare più ispezioni per separare le aziende virtuose da quelle patologiche. Infine, e sarebbe l’unico intervento da finanziare, quella che chiamiamo «eredità universale»: 15mila euro al compimento dei 18 anni, senza condizioni particolari se non quella di iniziare a discuterne dai 14 anni in poi. Un provvedimento del genere costerebbe 8 miliardi, che per 2/3 sarebbero coperti riportando la progressività, oltre i 500mila euro, delle tasse su eredità e donazioni, che oggi sono al 4% per tutti, sia poveri che ricchissimi.