Politologo e arabista, docente all’università di Saint-Louis (la seconda del Senegal, con 15 mila iscritti), Bakary Sambe coordina l’Osservatorio dei radicalismi e dei conflitti religiosi in Africa (Orcra). Da anni denuncia la minaccia di estremizzazione che incombe sull’islam del suo paese, tradizionalmente legato alle confraternite mistiche (sufi), pur ricordando come, a livello internazionale, siano riconosciuti lo spirito di tolleranza e la solidità dell’ordinamento democratico locale.

Già in un intervento dell’ottobre 2008, questo studioso tracciava il profilo di un processo dal quale emergeva come i movimenti d’ispirazione wahabita, propugnatori di una marcata de-laicizzazione della società (la fede musulmana ha una lunga storia in Senegal e concerne il 90% dei cittadini), abbiano puntato su un tema cruciale: l’istruzione scolastica.

OSSERVA SAMBE: «La non conformità della politica educativa del governo alle esigenze dell’islam è deplorata da molte associazioni e spinge le più radicali a negare ogni legittimità» alle istituzioni in carica. Eppure, il Senegal è una repubblica aconfessionale, dove l’insegnamento viene dispensato in francese, l’idioma ufficiale. Sfioriamo qui un nodo dolente, a partire dal quale alcune correnti esprimono il proprio disaccordo: la lingua francese rappresenta un’eredità coloniale e, pertanto, è tacciabile di veicolare valori «occidentali», estranei, se non ostili, alla cultura africana. La questione di fondo è però più complessa: all’istruzione francofona, gruppi di matrice religiosa – quali l’Organizzazione per l’azione islamica (Oai), al-Falah (o Movimento per la cultura e l’educazione islamica autentica in Senegal), l’Associazione degli studenti musulmani di Dakar (Aemud, legata alla rete della Jamat Ibad al-Rahman) – contrappongono la volontà di “arabizzare” l’insegnamento, col pretesto di renderlo più consono alla mentalità e alle istanze della popolazione.

ORA, L’ARABO non è un idioma autoctono (al contrario, ad esempio, del wolof, ampiamente parlato), ma costituisce piuttosto la lingua «sacra», lo strumento per eccellenza tramite cui passa il messaggio di fede e si prega. Rivendicarne l’apprendimento diffuso significa promuovere un discorso confessionale e lo dimostra il fatto che, nel variegato panorama nazionale, le scuole dove l’arabo è utilizzato hanno sempre un carattere religioso. Tale aspetto viene rivendicato con orgoglio e i direttori degli istituti lo sottolineano, agli occhi dei genitori, per incoraggiarli a iscrivere i figli.

VEDIAMO ALLORA come si configura il sistema scolastico nel suo insieme. Paese di circa 15 milioni di abitanti, il Senegal vanta un tasso di scolarizzazione nei bambini dell’84% (con differenze marginali fra maschi e femmine); il 40% degli alunni completa l’istruzione di livello secondario; mentre circa il 4% dei diplomati s’iscrive in uno dei cinque atenei pubblici (presenti a Dakar, Saint-Louis, Thiès, Bambey e Ziguinchor) o in una delle cinque università private aperte in varie regioni.

DA NOTARE come l’Université Cheikh Anta Diop di Dakar, la più grande, eretta dai francesi nel 1957, accolga 100 mila studenti, con un rapporto problematico docenti/alunni pari a 1/172 (l’unesco stima la condizione ideale a 1/30). I programmi sono calcati sul modello francese, ma gli insegnanti delle scuole pubbliche si trovano di fronte ad aule affollatissime, sin dai livelli elementari (anche 90 allievi per classe) e a una penuria cronica di strumenti pedagogici. Per questo le famiglie urbanizzate della classe media preferiscono impartire ai loro figli la formazione offerta dagli istituti privati parificati (alcuni cattolici).

VA PRECISATO che l’introduzione dell’islam come materia d’insegnamento ufficiale, accanto a nozioni di lingua araba, è recente: risale al 2002, su iniziativa dell’ex presidente Abdoulaye Wade, che si è avvalso, nella scalata al potere, dell’appoggio dei marabutti di obbedienza muride, ossia delle figure a capo di una delle maggiori confraternite musulmane, creata alla fine del XIX secolo da Cheikh Ahmadou Bamba. Da rilevare che il figlio cadetto di questi, Cheikh Mouhamadou Mourtada Mbacké, è stato l’ideatore della principale rete di scuole private religiose del paese, gestita con fondi propri e comprendente istituti diffusi un po’ ovunque, per un totale di 70 mila alunni, i più poveri dei quali frequentano gratuitamente.

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Pellegrini adepti del muridismo all’ingresso della Grande Moschea di Touba, Senegal (foto di Ben Curtis/Ap)

 

L’EDUCAZIONE in senso confessionale non concerne tanto il sistema di apprendimento pubblico, quanto un ambito privato, che ambisce a esercitare la sua concorrenza nei confronti dell’istruzione in lingua francese. Tale realtà ha solide basi nella cultura popolare e s’ispira a un modello informale antico: quello delle scuole coraniche o daara. Sorte, da secoli, per permettere ai fedeli, sin da piccoli, di memorizzare il Corano in arabo e di conoscere gli elementi essenziali per la pratica rituale, le daara hanno talvolta dato origine a centri di alto prestigio, seppure rigidamente orientati a materie teologiche o affini (ad esempio la grammatica araba). Dagli anni 1970, l’affermarsi del francese come idioma ufficiale e strumento di lavoro, dunque di modernità e sviluppo, ha emarginato le scuole coraniche.

SONO LE DISILLUSIONI del presente, legate a un’economia che non offre sbocchi per tutti, e tanto meno ai giovani che hanno ultimato gli studi, ad aver modificato, ancora una volta, le strategie delle famiglie, spingendole a tornare a un tipo d’istruzione che salvaguarda i valori tradizionali e preserva la moralità dei ragazzi, a dispetto di garantirne la riuscita in termini occupazionali. Ce l’ha spiegato Djim Dramé, ricercatore al laboratorio d’islamologia dell’Ifan, presso l’università di Dakar. Lui stesso è il prodotto di detta tendenza: ha studiato in una daara molto famosa (situata a Koki, accoglie quasi 4 mila studenti dai 4 ai 17 anni e, fra loro, anche alcuni provenienti da famiglie emigrate in Italia, che preferiscono crescere i figli in patria, nella stretta osservanza dell’islam). Dramé si è poi laureato in arabo all’università di al Azhar in Egitto e ha conseguito un dottorato in scienze dell’educazione al rientro in Senegal.

SOTTO LA PRESSIONE di un revival religioso concepito in termini identitari, la politica del governo è di aprire spazi all’insegnamento arabo-musulmano, evitando di urtare le suscettibilità sia degli ambienti sufi, sia di quelli wahabiti, ben più agguerriti e forniti di appoggi esterni, di ordine materiale e dottrinale (Arabia Saudita ed Emirati arabi). Per questo, ci racconta Ramatoulaye Diagne Mbengue, docente di filosofia all’università di Dakar e ispettrice generale dell’educazione e della formazione, alla maturità francese, cui si era gradualmente sommata la maturità franco-araba, si è aggiunta da tre anni la maturità araba, conseguibile in médersas confessionali.

Un rischio, per l’apertura in senso critico delle menti giovanili?