Bologna. Primavera 1978. In una delle aule del Dams una folla di studenti si è riunita per la presentazione di un libro. Si fa fatica persino ad entrare e molti sono seduti per terra. L’autore comincia a parlare: le teste ondeggiano, il brusio cresce. Improvvisamente lo scrittore prende a lanciare i libri che ha portato con sé e che aveva disposto sulla cattedra, ma che ora volano per l’aula. Uno dei volumi arriva sulla testa di un giovane Marco Belpoliti, che ha trovato posto solo nello spazio per terra davanti alla cattedra e che afferra il libro con prontezza felina. Così la presentazione di Alice disambientata, che Gianni Celati – sollecitato dallo psicoanalista Elvio Fachinelli – ha appena pubblicato per le edizioni de L’erba voglio, assume i connotati di una delle più potenti allegorie che la cultura del Novecento abbia prodotto.

«ALICE DISAMBIENTATA» era il condensato di un lavoro collettivo e di un laboratorio linguistico che il geniale professore di letteratura anglo-americana aveva proposto agli studenti che avevano occupato l’università e che però continuavano a seguire i discorsi e le storie di quell’anomalo docente che aveva portato le avventure di Alice nel cuore delle agitazioni studentesche divampate all’interno dell’Alma Mater Studiorum.

L’episodio, che Belpoliti racconta nel suo Pianura (pubblicato di recente da Einaudi), sembra fatto apposta per cogliere con immediatezza alcune delle qualità che hanno fatto di Gianni Celati (scrittore, critico, saggista, traduttore e regista nato a Sondrio nel 1937 e spentosi a Brighton nella notte tra il 2 e il 3 gennaio) una delle voci più significative e complesse della letteratura contemporanea. Innanzitutto la docenza universitaria e la passione per i testi eccentrici, con attenzione specifica a testi fantastici, e poi la capacità di agire nella letteratura e con la letteratura secondo modalità imprevedibili, tali da mettere in moto magmatici processi di risposta da parte dei lettori più consentanei.

Con Alice disambientata Celati dava la parola all’autonomia studentesca e le dava dunque l’occasione di riconoscere nel linguaggio incoercibile portato a fusione dal reverendo Dodgson i fondamenti letterari della trasgressione che si fa strada nei riti della comunicazione verbale.

CON QUEI LANCI all’apparenza privi di direzione, Celati consegnava agli studenti la mimica di una furia e di uno sdegno nelle settimane cruciali del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro. Una furia che si esprimeva con l’elaborazione culturale di un testo trasgressivo e alternativo. Come a dire che la letteratura è veloce ed efficace, e colpisce il bersaglio in modi che possono anche non essere intesi subito, ma che lasciano segni duraturi. La velocità è perciò lo stemma di un’azione che ha invece dalla sua la lentezza e la refrattarietà degli appartati.

Ad avvicinarsi ai personaggi di Celati (da Guizzardi ai Gamuna, dai pascolanti ai narratori delle pianure) notiamo che essi presentano i tratti dell’individuo solitario, di chi ha scelto la distanza dagli altri e ne sopporta con convinzione tutte le conseguenze. Si tratta di una solitudine morale, che coincide con la forza tipica dei superstiti e dei sopravvissuti, diversi da tutti gli altri, lontani e di fatto irraggiungibili.

Come i Gamuna, il popolo inventato in Fata morgana, che si mantiene isolato e non assimilabile. Celati, noto per essere camminatore instancabile, aveva immaginato che l’esodo di questa comunità avvenuto per motivi ignoti avesse portato i suoi membri a rifugiarsi in una vallata inaccessibile. Colpisce il fatto che le donne gamuna hanno un modo infallibile per tenere a bada avventurieri e stranieri: i loro sguardi sono arditi e misteriosissimi, e poi, con affondo comico, il lettore apprende che «ci sono sguardi mattutini e pomeridiani di donne gamuna che metterebbero in imbarazzo chiunque … “sguardi di civetta losca”», capaci di portare l’incauto che le avvicina all’allucinazione e al delirio.

IL COMICO e la fantasticazione (parola cui Celati è particolarmente devoto) sono i segni distintivi di chi si porta fuori da ogni omologazione e che fanno di Celati tra i maggiori esponenti di quel gruppo di scrittori solitari e lunatici ai quali Davide Bregola ha dedicato di recente una silloge ragionata (I Solitari, Oligo editore).

La lista delle traduzioni consegna un efficace diagramma degli interessi dell’autore: tra gli altri Swift, Melville, London, Joyce, Twain e Conrad (di cui ha tradotto La linea d’ombra e Al limite estremo). E quanto contasse per lui scrittore il confronto con gli autori più amati viene confermato, ad esempio, dalla prefazione stesa per Il richiamo della foresta. Per indicare le qualità della lingua di London Celati racconta che la percussività della lingua inglese e quella di London in particolare gli sono balzate evidenti solo quando ha sperimentato la lettura a voce alta di quelle pagine. Il problema di tradurre il testo coincideva pertanto con la necessità di restituire la «qualità fluida» che London aveva saputo mettere in campo e che risultava introvabile nella forma standard dei romanzi moderni.

La fluidità che il traduttore riconosceva a London si rivela strettamente imparentata con lo stato di contingenza spesso evocato da Celati stesso e assume i tratti della risposta ai Memos cui Calvino, molto amico dell’autore, rendeva omaggio nelle Lezioni americane. La fluidità si fa perciò postura letteraria e morale che rende quell’appartatezza segno di fiera coerenza.