Alla fine degli anni ‘60 con il movimento shangshan xiaxiang (su per i monti giù nelle campagne) Mao Zedong mise in atto una delle più vaste e dolorose trasmigrazioni umane della storia cinese, persuadendo o forzando migliaia di giovani d’estrazione urbana e intellettuale ad aderire alla sua utopia rurale. I zhiqing (giovani istruiti) tornarono con una coscienza nuova trafitta da pene fisiche e spirituali, folgorata in alcuni casi dalla scoperta delle proprie radici culturali, disorientata da un senso d’ineludibile distanza. Ne nacquero opere e figure letterarie di grande interesse, come la Trilogia dei Re di Acheng o l’afasico personaggio bambino in Pa Pa Pa di Han Shaogong, dove il peso del retaggio contadino suggeriva una rilettura amara ma poetica dell’atavica alteritàdi quel mondo, per nulla neutralizzata dalla rivoluzione maoista.

Sin dalla prima metà del secolo scorso lo iato geo-culturale e psicologico tra intellettuali e suolo natio costituisce uno dei luoghi di maggior profondità e lirismo della letteratura cinese moderna. Basterebbe pensare al Lu Xun di Ritorno al paese natale che stenta a riconoscere la sua terra, prigioniera della propria arretratezza, o – splendida eccezione – al rifiuto dell’intellettualità di Shen Congwen (autore di Città di confine), in nome di quella marginalità che egli apprezzava nelle campagne dell’Hunan occidentale.

Venne poi lo «scrittore contadino», ossimoro voluto da Mao, che costringeva nel capestro pedagogico del realismo socialista scrittori sublimati e poi consumati (come il popolare e sfortunato Zhao Shuli) dall’impari confronto tra realtà rurale e ideale politico.

Sulla scia di quel filone narrativo, grandi scrittori della Cina odierna, come Mo Yan, premio Nobel per la letteratura 2012 e Yan Lianke, autore di Pensando a mio padre, da poco uscito per Nottetempo (traduzione di Lucia Regola, pp. 62, euro 14,00), si differenziano sensibilmente sia dai giovani istruiti, incantati o respinti dall’alterità contadina, sia dai padri della narrativa moderna, stretti invece tra l’illuministica aporia della redenzione e il vitalismo primigenio della terra d’origine.
L’impossibile ideale di Mao sembra essersi realizzato nella Cina post-socialista del 2000, rovesciandone però i termini. Entrambi di origine rurale, entrambi impiegati per lungo tempo nell’esercito, i contadini-scrittori Mo Yan e Yan Lianke condividono anche una straordinaria energia immaginifica e sensoriale, attinta dalle tradizioni linguistico-culturali locali, l’impegno/denuncia a interpretare il paradosso, la violenza, l’ingenita inadeguatezza socio-culturale delle campagne, raffigurandone al contempo la bellezza. La prospettiva è capovolta: al contrario di molti zhiqingo dei giovani narratori di ultima generazione, l’alienazione in loro nasce di fronte alla dimensione iperurbana cui si è votata la nazione cinese del nuovo millennio. La riconversione dell’utopia rurale, nelle politiche delle ultime decadi, in un’utopia prettamente cittadina e tecnologica, è dunque il centro delle riflessioni postmoderne dei due autori. Se le usanze semi-barbariche eppure culturalmente dense descritte da Mo Yan nel Paese dell’alcol (Jiuguo) – luogo di mitica rigenerazione e corruzione demoniaca – fanno della campagna una sintesi estrema della civiltà cinese, in La gioia di vivere (Shouhuo) di Yan Lianke il remoto villaggio, ignorato dalla rivoluzione comunista e invano sfiorato dal «sogno cinese» promosso dall’attuale oligarchia, figura come il teatro delle contraddizioni di una terra che di fronte all’imperversare della globalizzazione trae la sua forza proprio dalla locale irriducibilità al mito moderno.

Pensando a mio padre, selezione di alcuni capitoli di un saggio autobiografico, è un atto di struggente devozione a due principi fondanti la cultura cinese, la terra e la pietà filiale, ambedue disattesi nella Cina di oggi (urbana), al punto da richiedere l’elaborazione di grandi azioni di rinnovamento come la politica delle Tre Riforme Rurali (Sannong) o di una recentissima legge sull’obbligo di rispettare e accudire i genitori. L’autore ne fa gli estremi di un chiasmo etico-sociale in cui restituisce il primato morale alla terra e alla generazione contadina sulle cui spalle gravò sia il grande mito rivoluzionario sia il suo tragico fallimento. Tutto ciò avveniva quando le campagne – come scrive – «diventarono … la sconfinata geografia dove la Rivoluzione … reclamò i suoi inevitabili sacrifici».

Al rovinoso Grande Balzo in Avanti, peraltro, Yan Lianke aveva già dedicato nel 2011 il romanzo I quattro libri(Sishu) pubblicato a Taiwan per evitare la censura.

La difesa del «familismo morale» in ambedue gli scrittori vuole consegnare un senso ai Cambiamenti,come dice il titolo del breve scrittoautobiografico di Mo Yan (Nottetempo, 2011) subiti dal paese. In questa struttura chiastica, al movimento centripeto verso le campagne vagheggiato da Mao, si contrappone, nelle memorie di questi contadini-scrittori, il desiderio centrifugo di affrancarsi dalla povertà e incultura delle campagne, troncando dolorosamente i legami antichi e familiari con il suolo natio in spregio dunque ai secolari riti confuciani. Per entrambi la fuga dalla terra e la carriera militare sono la via lungo la quale dar corpo a questo desiderio fino a trovare poi nella letteratura la vera emancipazione.

Proprio la scelta letteraria, tuttavia, li ritrascina implacabile verso quella terra e quella generazione di padri e madri analfabeti, obbligandoli a farne un racconto impastato col sangue e il sudore del lavoro e della memoria: «È grazie alla memoria che il passato esiste – osserva Yan Lianke – vi sono anni che lasciano segni simili alle cicatrici prodotte da una coltellata; ve ne sono poi di insignificanti, che passano come il vento e la pioggia, come nubi che fluttuano in cielo, senza lasciare altra impronta che una vaga traccia di profumo».

Nel riscattare la campagna tramite la memoria, simili a cicatrici sono le pagine dedicate al ricordo penoso della malattia e della morte del padre, al senso di colpa dell’autore per il proprio «tradimento», punto più alto di una narrazione densa di devoto stupore: «lui era profondamente legato alla vita proprio perché ne aveva sperimentato le amarezze, e, avendo sofferto, ne apprezzava ancor più il senso e le piccole gioie che essa regala». Il valore dell’esistenza, che può essere anche commedia mentre la tragedia si addice al destino, trapela dalla schiva sobrietà della parola, inusuale nello scrittore.

L’antidoto alla povertà della terra e al dolore dei padri sembra a Yan Lianke – come a Mo Yan – derivare unicamente dall’istruzione e dalla letteratura, un «fascio di luce ignoto agli altri» che, «sospeso nel lontano futuro della mia esistenza», lo convinse, ragazzo, a fuggire, per poi costringerlo a denunciare l’immane «divario di opportunità fra città e campagna», «il congenito disprezzo dei giovani istruiti per la campagna e i contadini», e il colpevole oblio della terra madre: «esattamente come accade nelle attuali politiche di apertura e riforme, al centro degli interessi erano le città, non certo le campagne con il loro miliardo di contadini».

A conclusione del libro, in un dialogo col fratello, s’inchina alla terra e alla famiglia anche la pretesa superiorità della letteratura: – «La mamma ogni giorno ha usato il romanzo che hai scritto per accendere il fuoco, sai, per cucinare e scaldarci d’inverno, e una pagina alla volta l’ha bruciato». – «L’ha bruciato tutto?’ domandai.» – «Quasi tutto’ rispose lui».