Cos’è la letteratura? Una proiezione equilibristica, retta da vorticosi e virtuosistici inafferrabili nessi, dell’universo che chiamiamo reale: «la Precisione della Poesia e l’Emozione della Scienza». Incrociando le due relazioni apparentemente incompatibili che ci propone Vladimir Nabokov, non avremo la calma piatta del prevedibile, ma una lancinante densità di «bellezza e commozione».
Così parlava il grande russo d’America agli studenti della Cornell University (e prima del Wellesley College) tra il 1940 e il 1958, quando non c’era ancora Lolita, c’erano gli straordinari romanzi russi scritti prima di emigrare – a nessuno noti – e un ego spropositato che in cattedra si sentiva allo stesso tempo onnisciente e sprecato. Ora, le Lezioni di letteratura di Nabokov, raccolte postume nel 1980, sono riproposte da Adelphi (pp. 528, euro 26,00) in una nuova traduzione di Franca Pece, con la stessa introduzione di John Updike e la prefazione del curatore Fredson Bowers che avevano accompagnato la prima versione italiana.

Nabokov l’entomologo (sua seconda cattedra nei primi anni americani!), l’inventore di raffinatissimi congegni narrativi, avvincenti ma enigmatici, precisi come meccanismi d’orologio, quando parla di Dickens, di Flaubert o di Kafka, parla, ovviamente, di sé. È lui che ha scritto un romanzo su uno scacchista che è a sua volta una partita a scacchi (La difesa di Lužin), ha incastrato tre mondi e tre piani narrativi per dimostrare quale tour de force sia Il dono della creazione letteraria. Adesso spiega agli studenti americani che, mescolando arte pura e scienza pura, ingegno cinicamente meticoloso e abbaglianti epifanie proustiane, si riesce a scrivere e a leggere la letteratura non con il cuore, e neppure con la sola mente, bensì con la spina dorsale, aggregato serpentino di energia vitale, che innesca come una miccia il cervello.

Occhiuti come investigatori, sempre la massima tensione e attenzione al particolare, indifferenti agli elementi extraletterari, tanto biografici che sociopolitici: è così che Nabokov vuole i suoi studenti, con i quali esamina, pagina per pagina, Madame Bovary o l’Ulisse di Joyce. Con il carisma, l’impositività, la complicità del rapporto maestro-allievo. Allo stesso modo dovrà comportarsi il lettore dei sette distinti saggi che sono altrettante rigorose e approfondite analisi testuali, costruite interamente con i materiali usati da Nabokov per le lezioni, incalzante sequenza di note e riflessioni, non approntata dall’autore per la pubblicazione.
L’idea del brogliaccio non inganni : è vero, la sintassi è frammentaria e spesso riallineata dal curatore, ma la dispersione dell’impianto, paradossalmente, accentua l’icastica incisività di una parola nuda e tagliente.

Nient’altro che il testo
L’attenzione esclusiva per stile e struttura, l’analisi non di scrittori, ma di singoli libri, la centralità assoluta del testo sono un programma interpretativo limpido e inequivoco, che certo implica anche una guerra aperta alla critica autoreferenziale, didascalica, a ogni moda e ogni ismo, freudismo incluso.
Per non sentirsi deluso, il lettore italiano deve essere disposto a tornare in aula, a sedersi accanto agli studenti del mitico corso Letteratura 311-312 della Cornell, «Maestri della narrativa europea», a dilettarsi sulla lavagna dei circoletti di Jekyll e Hyde che sgusciano l’uno dall’altro o del panciuto, tenero coleottero Gregor Samsa (che non è uno scarafaggio, parola d’esperto!), accettando il professore con tutte le sue idiosincrasie, intransigenze, sarcasmi e battute a fiumi: «dalle ottanta alle novanta pagine all’anno – ecco un tipo che mi va a genio!» dice di Flaubert, da nemico giurato degli scrittori di bestseller.

Nabokov insegnava essenzialmente a leggere. Una lettura non meno lenta della scrittura, che è sempre, programmaticamente, ri-lettura, perché, superato il primo impatto, fin disturbante, con la fisicità del testo, lo sguardo possa spaziare nei meandri dei dettagli come lungo la superficie di un quadro. Fortissima è appunto la componente visuale, l’immersione integrale nel labirinto dei larici di Mansfield park di Jane Austen, nei sentieri di Combray, in ogni vicolo della Dublino di Joyce. Poi, unendo i tasselli del già noto, parte la caccia al tesoro dei particolari, scoccano scintille sensoriali (la spina dorsale!) che organizzano il testo come un sistema di nessi e corrispondenze, un organismo quasi animato tessuto di fibre interdipendenti.

Così nel proustiano Dalla parte di Swann la sofferenza del narratore per il mancato bacio materno è un presagio dei futuri tormenti della gelosia, ma anche delle sofferenze amorose di Swann, o in Casa desolata di Dickens una sorta di ombra colorata semantico-espressiva contraddistingue ciascuno dei personaggi principali. Con uguale rigore metodologico e dispiego di mezzi d’ingegno Nabokov affronta i sette classici sui quali ogni anno vertevano le sue lezioni (gli altri erano russi, raccolti in un volume separato, pure di prossima ristampa), ma il suo giudizio altamente invasivo traccia un solco tra gli adorati Flaubert, Proust e Kafka, sebbene letti in traduzione, e gli inglesi Austen, Dickens e Stevenson, i primi due scelti, forse anche per esigenze di programma, su consiglio di Edmund Wilson, il terzo elevato a classico con ostentato arbitrio, dissimulando, dietro le lodi allo stile, la ricerca di ascendenze per la propria sterminata galleria di sosia. Joyce, di cui pur riconosce in pieno la grandezza, è però anche una pietra di confine, l’emblema dell’autonomia del significante e dell’aperta sperimentazione, per le quali Nabokov non nasconde le sue scarse simpatie.

Proiezioni biografiche
Il resto è divertimento. Dal gusto per l’innovazione terminologica – «mossa del cavallo» e stile «con la fossetta» per le arguzie di Austen, o l’ormai internazionalmente acquisito «contrappunto» dei nuclei testuali giustapposti ma interdipendenti in Madame Bovary – fino all’identificazione dell’«uomo dal macintosh marrone» con lo stesso Joyce o alle implicazioni omosessuali di Hyde. Ancor maggiore è il divertimento quando Nabokov promette, dovesse mai scrivere retrospettivamente della Cornell University, lo stesso distacco dalla realtà di Proust o Tolstoj (eppure, già sta riversando la sua esperienza universitaria in quello che sembrerebbe – e non è –- un romanzo autobiografico, Pnin) o quando «il vecchio Freud» che «ridacchia nell’ombra» davanti al fallico frustino di Emma ricalca Axel Rex nel finale di Una risata nel buio.
Chiude il libro una sorta di lezione di raccordo, che esplicita ulteriormente la visione nabokoviana dell’atto creativo, focalizzato nel passaggio tra una fase dissociativa dell’ispirazione, sensorialmente prensile ed epifanica, e una fase associativa, dove l’ingegno riprende il controllo, e comincia a cesellare; anche qui, in cerca di una nominazione originale, non può ricorrere che al russo: vostorg la prima fase, vdochnovenie la seconda.