«Le parole del Lettore riecheggiavano, scavavano solchi nelle memorie, attaccavano timpani, nuche, braccia e gambe. Bocche e palpebre tremavano. Le bruciature interiori di ventimila persone si risvegliavano». Nel Paese senza nome descritto da Cécile Coulon è al potere evocativo dei libri che è affidato il compito di garantire l’ordine sociale attraverso letture pubbliche in cui toccanti pagine letterarie catalizzano le emozioni più inconfessabili di una popolazione altrimenti docile e sottomessa.

In La casa delle parole (pp. 160, euro 14), appena pubblicato, come il precedente Il re non ha sonno, da Keller, Coulon conferma di essere non solo una delle più giovani, è nata nel 1990 a Clermont-Ferrand, ma anche delle più interessanti voci della nuova narrativa francese. Una mezza dozzina di opere all’attivo che spaziano dagli ambienti della provincia americana, mescolando i riferimenti a Steinbeck o al rock’n’roll di Jerry Lee Lewis, alla science-fiction e all’indagine sociale, ama citare Stephen King come Pasolini, la scrittrice indaga con grazia e determinazione i confini del romanzo, grazie ad una lingua mai banale e a uno stile dal forte impatto evocativo. Nel 2013 ha lanciato il «Manifeste des enfants sauvages», appello a un risveglio generazionale sia politico che culturale.

Il suo romanzo è, a un tempo, un atto d’amore per i libri e la letteratura e una riflessione sul potere che possono avere questi stessi nelle nostre vite. Quale aspetto prevale?
Credo siano entrambi centrali in La casa delle parole. Sono cresciuta in mezzo ai libri, li ho amati fin da piccola visto che a casa mia si leggeva molto. Crescendo ho scoperto che non tutti condividevano quella passione; anzi, c’erano tante persone che non leggevano neppure il giornale. Così, ho cominciato a pensare spesso a questa «abitudine», concentrandomi però su un aspetto particolare della questione. Mi sono chiesta se paradossalmente non ci fosse qualcosa che mi faceva ancora più paura di un mondo in cui i libri rischiavano di scomparire, vale a dire la possibilità che si possa finire tutti per leggere solo e soltanto le medesime cose. Ho immaginato allora una società in cui tutti gli individui sono obbligati dal potere a leggere gli stessi libri e unicamente quelli.

Nel romanzo «1984» si legge che «l’Ortodossia consiste nel non aver bisogno di pensare», mentre in «Fahrenheit 451» si bruciano i libri e i cittadini sono obbligati a guardare la tv. Non la spaventa aver toccato, nelle sue pagine, identici temi di scrittori del calibro di Orwell e Bradbury?
A dire il vero, questo timore è stato il mio primo pensiero da quando ho cominciato a scrivere il romanzo: temevo di essermi spinta troppo in là, verso la «letteratura d’anticipazione». In realtà non ho cercato di copiare Orwell o Bradbury, ma di proseguire, con i miei strumenti, quanto avevano fatto loro. Questi due scrittori hanno aperto la strada alla riflessione sul ruolo esercitato dai libri e dalla cultura nella costruzione del controllo ideologico di una società. Un tema che mi sembra molto attuale. Così, ho cercato di concentrarmi sul fatto che i libri sono degli oggetti bellissimi, ma se finiscono nelle mani sbagliate possono trasformarsi in qualcosa di molto pericoloso.

Nell’universo totalitario descritto nel suo romanzo si cerca di manipolare le anime dei cittadini attraverso testi chiamati Libro Odio, Libro Tenerezza, Libro Tristezza. La letteratura come strumento di controllo?
L’idea di partenza era che la maggior parte delle persone non si conosce davvero e ha paura delle proprie emozioni, si tratti della collera e della rabbia come dell’amore. C’è sempre qualcosa di noi stessi che ci sfugge, elementi che sembrano traboccare dalla nostra anima senza che noi ne siamo del tutto consapevoli. Perciò, nel romanzo, sono le autorità a sovraintendere alle manifestazioni esteriori di queste emozioni. Visto che si tratta di una società iper-controllata, quando le persone sentono il bisogno di provare qualcosa prendono il libro che corrisponde a ciò che hanno voglia di sentire e partecipano a queste adunate collettive che sono poi l’unico luogo in cui i loro sentimenti possono esprimersi sotto l’occhio vigile dei guardiani. «Consumano» le loro emozioni in questi luoghi, quasi si trattasse di una droga, per poi tornare ad essere dei cittadini ubbidienti.

Facile intravedere un parallelo con la politica. Marine Le Pen ha puntato tutto sul dare voce a sentimenti come la paura e l’inquietudine. Chi interpreta le emozioni dei cittadini può controllare un paese?
C’è questo rischio ed è anche grande. In effetti, penso che chi ha votato per il Front National lo abbia fatto prima di tutto perché è intimorito, non sa bene cosa gli possa capitare sia sul piano del lavoro, su quelo delle sue condizioni di vita o anche riguardo i rischi che si possono correre in modo del tutto inaspettato – mi riferisco agli attentati del 13 novembre. Credo però che in questo voto, in cui trovano certo espressione paura e collera, si esprima anche il sentimento di voler controllare queste stesse emozioni, le proprie come quelle degli altri, attraverso un sistema duro, repressivo, sempre più militarizzato come quello che promette Le Pen.
Oggi c’è un’ossessione pressoché generalizzata per la «sicurezza», e questo anche a scapito della libertà, della cultura, di qualunque altro aspetto della vita sociale. Per farsi ascoltare basta dire che si chiuderanno le frontiere, si censurerà la stampa, si metteranno poliziotti dappertutto: un orizzonte che assomiglia tanto a quello del mio romanzo.