Arricchito da una lunga postfazione che ne sottolinea i motivi di fondo – il terrorismo come forma tangibile delle inadempienze nelle democrazie moderne, il terrorista come immagine deformata e speculare dell’abitante tipico dell’Occidente, l’assoluta modernità del fenomeno in quanto elemento costituente della forme di vita associativa, e delle sue mancanze – torna in libreria, cambiando editore, il saggio che Daniele Giglioli aveva pubblicato nel 2007 da Bompiani, All’ordine del giorno  è il terrore I cattivi pensieri della democrazia (Il Saggiatore, pp. 269, euro 22,00). L’autore vi aggiunge ora una importante riflessione sulla funzione eversiva che, nel cuore delle democrazie occidentali, sembra essersi potenziata nel nome della «gente che non ne può più».

Mettendo a servizio del tema di fondo, ovvero il terrorismo come alterità sviluppata all’interno della democrazia che se ne pretendere separata, le sue notevoli conoscenze sociologico-letterarie, e utilizzando le citazioni in modo da farvi convergere precipitati di senso da cui rilanciare ogni volta le sue tesi, Giglioli amplia continuamente il tema, chiamando in causa la letteratura perché funzioni da spunto di riflessione sull’indagine sociologica, di decifrazione sintomatica di ciò che la sociologia non riesce più a esprimere.
Se è vero che si leggono spesso, in questi tempi di indignazione tanto moralistica quanto impotente, lamentazioni sulla mancanza di intellettuali in grado di indagare quanto sta accadendo, i saggi di Giglioli contribuiscono a rendere l’accusa infondata.

Certo, non è lecito aspettarsi soluzioni immediatamente consumabili sul piano politico, perché ogni risposta seria implica la presa di coscienza dell’atomizzazione (avrebbe detto Lukács) che ci riguarda, vale a dire della disconnessione di quel tessuto sociale da cui far partire una risposta collettiva. Sulla scia di Hannah Arendt, proprio questa atomizzazione viene letta da Giglioli come uno tra gli elementi al tempo stesso fondativi del terrorismo e essenziali all’efficacia del Terrore. L’estrema personalizzazione e individualizzazione delle nostre esistenze, la promessa implicita di un surplus di libertà nello scollegarsi di ciascuno di noi dall’insieme sociale, rivela in realtà una grande dipendenza dai fenomeni collettivi e la coscienza di quanto l’individuo sia impossibilitato ad agire e a determinare il corso del reale.

Il Terrore, le cui manifestazioni Giglioli segue sia dal punto di vista storico che letterario, partendo dalla Rivoluzione Francese e arrivando agli attentati del nuovo secolo, viene da sempre rappresentato come un territorio altro (selvaggio, ostile, orientalizzato), ma la macchina totalizzante che quel territorio rappresentava (i totalitarismi del XX° secolo) e tutt’ora rappresenta (il terrorismo islamico) contiene in sé l’idea di una possibile azione individuale che è affine a quella offerta dalle democrazie occidentali. Gli scritti di Furio Jesi, che Giglioli cita, rimandano al Terrore come macchina mitologica impegnata nel tentativo di soddisfare un bisogno evaso dalla democrazia; resta però il fatto che i singoli non riescono a emanciparsi da quella autoreferenzialità che ne denuncia l’impotenza, vale a dire la mancata efficacia sul piano politico della prassi collettiva (interessanti a questo proposito i paralleli che il libro stabilisce con l’avanguardia artistica).
Il soggetto del Terrore, dice altrove Giglioli, caduto in uno stato di minorità, «sogna» di farsi altro rispetto al sistema cui si oppone, ma paradossalmente funziona da cartina di tornasole del sistema stesso, di cui condivide, sebbene rovesciandole, le strategie coercitive, a cominciare dalla negazione di un rapporto conoscitivo con la totalità del reale.