La tolleranza diventa un crimine, quando si applica al male. Al di là del solito citazionismo, converrebbe prendere molto sul serio queste parole di Thomas Mann poiché è proprio sui confini, interni e esterni, che diamo alla libertà di parola e, nel concreto, alla «tolleranza» che si gioca gran parte della vulnerabilità morale dei nostri sistemi culturali e politici.
Andiamo a Göteborg, per esempio, sulla costa meridionale della Svezia. Quasi un milione di abitanti, fra centro e hinterland, ne fanno la seconda città del Paese. Göteborg è meno friendly di Stoccolma e ancora oggi, al netto della crisi, l’industria manifatturiera e quella portuale ne rappresentano l’ossatura. Ma i nervi della città sono altrove, e sono molto tesi.

È bastato girare per la città sabato scorso, per accorgersi che alcuni bar erano stati trasformati in prigioni estemporanee da parte della polizia, al fine di rinchiudere alcune decine di manifestanti del Nordiska motståndsrörelsen, movimento molto ramificato al Nord, tanto in Norvegia, quanto in Finlandia e Danimarca, ma che in Svezia ha dato forma anche a un partito politico ben strutturato. Nordiska motståndsrörelsen manifestava al grido «il Nord non perdona». Un bel problema e, soprattutto, un bel paradosso. Perché se, da un lato, la risposta istituzionale al Movimento di resistenza nordica che si è radunato davanti alla locale sinagoga è stato duro, dall’altro, sempre a Göteborg, è andata in onda la messinscena «della tolleranza» all’interno della principale fiera libraria del Nord Europa (conclusasi domenica).

DOV’È IL PROBLEMA e, di conseguenza, il paradosso? Ai primi di maggio, quasi duecento giornalisti e scrittori, tra i quali alcuni membri dell’Accademia svedese, avevano preannunciato il boicottaggio di Göteborg Book Fair (Bokmässan), che è tra le principali rassegne d’Europa, capace di raccogliere ogni anno circa centomila visitatori e mille espositori. La protesta è nata dalla presenza dello stand della rivista Nya Tider, che avrebbe (diciamo pure: ha) legami forti proprio con i neonazisti svedesi di cui sopra. Moralismo? Incapacità di «dialogare con tutti», anche – seguendo il luogo comune più pericoloso e trito – «con chi non la pensa come noi»? Ed ecco il paradosso: assistiamo nello spazio per nulla impolitico della «cultura» a una guerra di snervamento. Si tratta, da parte di gatekeepers spacciati per intellettuali, di rovesciare lo stigma dell’«intolleranza» su chi si oppone a dare asilo culturale… all’intolleranza. E col paradosso torna d’attualità l’invito di Mann a non andare per il sottile e a non varcare mai la linea della complicità, del coinvolgimento o della sola coimplicazione.

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La letteratura è un atto politico radicale. Negarlo, in nome di una presunta «laicità» del campo editoriale, è negare alla radice stessa ogni possibilità per la letteratura di incidere – quel tanto o quel poco che può – sul modo di dar forma al mondo.
Lasciamo da parte i massimi sistemi e andiamo al concreto: che cos’è, una fiera del libro? Un luogo dove ragionare, discutere, lavorare su idee e anche uno spazio commerciale o un mero centro commerciale dove le idee sono solo l’etichetta «light» da appiccicare a qualsiasi genere di merce? Per chi non si rassegna a pensare agli oggetti culturali come a meri feticci dell’iperconsumo, la questione è cruciale.

A lanciare il sasso, l’11 maggio scorso, è stata Laura Lindstedt, autrice di punta della letteratura finlandese (intervistata su queste pagine da Guido Caldiron il 10 dicembre 2016) che col suo romanzo Oneiron, edito in Italia da Elliot, ha stravolto stereotipi, lingua e canoni della letteratura nordica. È coerente per un autore – chiede Lindstedt – e con la propria missione partecipare a una fiera dove, tra gli stand, si trovano riviste di estrema destra e editori neonazi?
Consideriamo che la Finlandia, che ha come seconda lingua proprio lo svedese e di cui ricorre il centenario dell’indipendenza, è stato il paese ospite della fiera e Lindstedt l’autrice che, pur assente, è stata più paradossalmente presente, tanto che del suo lavoro si stanno annunciando molte traduzioni e Oneiron è il candidato più accreditato al Nordic Council Literature Prize che verrà consegnato a novembre.

AD ACCENDERE LA MICCIA, è bastata la presenza di Nya Tider. La rivista c’era anche lo scorso anno, in verità, e già aveva destato malumori. Tanto che il comitato della fiera aveva reagito prima chiudendole la porta poi, basandosi su un cavilloso ragionamento giuridico, cambiando idea: se l’espositore non ha infranto la legge, è benvenuto alla fiera.
Stuoli di avvocati, consulenti e giuristi sono stati infatti mobilitati dall’editore di Nya Tider per dimostrare che la rivista non infrange alcuna norma dell’ordinamento giuridico svedese e, di conseguenza, con il ragionamento capzioso, che «impedire la sua partecipazione sarebbe lesivo della libertà di espressione». Un politicamente corretto rovesciato e in salsa nera, insomma.

«NYA TIDER» HA UNA TIRATURA di 4147 copie, viene pubblicata una volta alla settimana e ottiene un sussidio per la stampa pari a 3,4 milioni di corone svedesi, ossia 350mila euro all’anno. Già a maggio la direttrice generale della Fiera Maria Källsson aveva annunciato che non si sarebbe piegata davanti al boicottaggio. Come criterio discriminante, gli organizzatori si sono appellati alla legge svedese «Organisationer med dokumenterat våldskapital hör inte hemma på Bokmässan» (DN 30.3.2017). Così, se Nya Tider è stata accolta in Fiera, il Movimento di resistenza nordica vicino alla rivista è stato invece lasciato agire per le strade. Con le conseguenze che, sabato, sono state chiare a tutti: dentro la fiera lato dei «presentabili», fuori quello degli «impresentabili». Ma la medaglia (nera) è sempre la stessa.

A DENUNCIARE e documentare la contiguità tra rivista e movimento è stata un’altra pubblicazione, Expo, che ha partecipato al boicottaggio, denunciandone le derive antisemite (http://expo.se/2016/det-har-ar-nya-tider_7147.html)

. Il direttore di Nya Tider Vavra Suk è uno dei padri fondatori del Partito Nazional Democratico (Nationaldemokraterna) che, a dispetto del nome, non è un equivalente del partito renziano ma una delle più forti compagini della destra radicale nell’Europa del Nord.
Oggi, dopo l’eco internazionale avuto dal boicottaggio, in un suo post su facebook e volutamente scritto in inglese, Lindstedt spiega molto bene i termini della questione: il problema non è la presenza di un editore vicino ai neonazisti in sé, il problema sono gli organizzatori che si sono dimostrati disposti ad accoglierlo, finanziando la fiera stessa anche con il denaro proveniente dalla vendita dello stand ai neonazisti.

Possiamo evocare parole come «democrazia», «tolleranza», «condivisione delle idee» quando lo scenario è questo? Ecco che la questione si fa ben più delicata, e mette in discussione non tanto una parte (i neonazisti e i loro fiancheggiatori), ma coloro che si collocano in una posizione di apparente neutralità (gli organizzatori della fiera).
La direttrice di Göteborg Book Fair, Maria Källsson, vede la fiera del libro come una piazza aperta in cui si arriva per dibattere in uno spirito di «civilizzazione/erudizione», bildning. E bildning è proprio il tema principale della rassegna di quest’anno, che si è dichiarata «contro il populismo e l’intolleranza». Possiamo escludere i gruppi estremisti dalla nostra Fiera, ha dichiarato Källsson, «ma non possiamo chiuderli fuori dalla nostra società. Escluderli significherebbe lasciarli ammantare dell’aura di perseguitati e martiri».

Le fiere sono spazi pubblici, ma sono anche luoghi commerciali. La scelta, pertanto, è orientata a convenienza e profitto. Se si dà però una policy precisa nessuno potrà tacciare di intolleranza la scelta di questa policy e le correlative esclusioni. Un criterio elementare, a quanto pare non autoevidente.

SULLA STAMPA SVEDESE ci si è chiesti se fosse stato più efficace «affrontare» l’ingiustizia partecipando alla fiera, o «chiamarsi fuori», boicottandola. Questa formulazione – ha spiegato la scrittrice Lindstedt – è già difettosa in sé. Boicottare non significa opporre la reazione di ficcare la testa nella sabbia, al contrario, è un modo intransigente per dire: «Se si accettano i neonazisti e il loro denaro, noi ne restiamo fuori. (…) Non ci opponiamo ai neo-nazisti attraverso questo boicottaggio. Non è a loro che il boicottaggio si rivolge. Sarebbe totalmente naïf pensare che gliene possa importato qualcosa. Deve essere chiaro: il boicottaggio è verso gli organizzatori che sono disposti a finanziare la fiera del libro con i soldi di Nya Tider».
Nel dicembre del 2016 Maria Källsson e Jürgen Boos, direttore della Fiera del Libro di Francoforte, rilasciarono una dichiarazione il cui scopo era «difendere la società aperta e tollerante» e, ovviamente, la presenza di attori come Nya Tider alle due fiere. Källsson e Boos sottolineavano che il nucleo di ogni fiera del libro è sempre stato «un acceso dibattito politico». Nel 1960 c’erano le rivolte studentesche, nel ’70 il movimento ambientalista, nel ’90 la guerra civile jugoslava.

Tutti questi conflitti sono stati riflessi da autori e attivisti a Francoforte, durante i giorni della kermesse culturale. Ma il conflitto, oggi, rischia di diventare un alibi per neutralizzare preventivamente ogni altro conflitto. O, meglio, per anestetizzarlo sul piano culturale, lasciando che esploda – privo di anticorpi – per le strade e nelle piazze, come è successo sabato a Göteborg.